ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BOLOGNA - ANGELAROSA BENEVENTO

Storicamente – e si potrebbe dire fin dalle origini – la scultura interagisce con l'architettura, dato che fonda la propria prima ragione nel suo essere dimorata nello spazio, spazio umano e vissuto in quanto costruito, e in quanto umana modifica dello spazio naturale. Solo un malinteso idealistico, derivato da un'ansia tassonomica che impone la separatezza delle arti, ha potuto consentire il prelievo delle metope dai templi e la loro esposizione, come perfettamente autonome, in musei archeologici il cui scopo è occultarne la verità architettonica. E ciò ugualmente vale per le statue che arricchivano gli ingressi delle cattedrali d'Occidente, sovente ammirabili in altri musei come trofei di caccia grossa dell'equivoco estetico moderno. Ma, nel suo connubio con l'architettura, la scultura non soffre affatto di subalternità: poiché tende invece essa stessa a decidere lo spazio: che aggredisce, svelandolo e rendendolo linguistico. Cosí ritengo perfettamente congruo e interessante che operazioni scultoree attuali (e non dico: installazioni, dato che installazioni non vuol dire molto più di nulla) come quelle che ci propone Angelarosa Benevento muovano dall'idea che l'opera deve insistere sul suo rifiutarsi di essere oggetto, entità a sé stante e staccata dal mondo, per venire a proporsi piuttosto quale istanza di attivazione del rapporto tra soggetto (fruitore) e luogo (vissuto), aggiunta dialettica o invasione, capace dunque di instaurare la facoltà di una coscienza piena che allo spazio (preesistente) proponga la sfida di un gesto che lo rivitalizzi e lo renda diversamente percepibile. Facoltà che, nel caso specifico del lavoro presentato dalla giovane scultrice a San Servolo, si basa sulla scelta per cui le pareti, i soffitti, gli anfratti di un campanile antico sono investiti da un vero e proprio assalto di forme plastiche in colla siliconica: a simulare api, eserciti di insetti, proposti in una chiave (anche) metaforica che li assimila a membri di un'organizzazione sociale vagamente delirante. Una moltitudine i cui individui non hanno alcuna cupidigia di farsi stilisticamente apprezzare: e infatti sono prodotti pressoché in serie e senza alcuna pretesa di abilità manuale, nella certezza – che è a mio avviso segno di maturità dell'artista – che il valore dell'opera non potrà mai piú imperniarsi su requisiti di mero pregio formale. Ciò che conta è l'effetto complessivo, l'impatto emozionale, se si vuole, che la presenza inopinata di decine e decine di api viene a determinare sull'immaginazione del fruitore, grazie a un utilizzo del tutto strumentale della mimesi scultorea. Dove cioè l'adesione mimetica non è affatto intesa come scopo, e dove infatti non conta per nulla il dato tecnico-esecutivo, ma solo la possibilità – grazie all'applicazione di un preciso sapere linguistico – di generare l'urto emotivo che si diceva. 

Testo a cura di Sandro Sproccati