Isole Vergini Statunitensi
Cornelia Kubler Kavanagh
Lo tsunami che ha colpito le coste dell’Oceano indiano il 26 dicembre 2004 ha sconvolto il mondo intero. Oltre 240.000 sono state le vittime in 12 paesi e la punta nord-occidentale di Sumatra, sesta isola per superficie al mondo, è stata completamente distrutta. Le immagini di quelle gigantesche onde oceaniche e dei loro effetti devastanti hanno modificato il nostro modo di percepire il fragile equilibrio tra l’armonia della natura e il caos totale. Il paradosso dello tsunami, al tempo stesso strumento di distruzione ed espressione della bellezza naturale, mi ha indotto a creare sculture che riconciliassero la potenza devastatrice dell’acqua con la sua grazia fluida intrinseca.
Infondere la mia reazione emotiva allo tsunami in una forma immobile è stato al tempo tesso difficile e appagante. Ho esplorato la circolarità del movimento ondoso e il suo spazio interno ed esterno. Ho immaginato di restare intrappolata all’interno dei suoi incessanti movimenti vorticosi e di esserne completamente travolta. Ho cercato di imbevere le forme di un moto di spinta in avanti e di un senso minimalista di perfezione trascendentale.
TSUNAMI VIII è una scultura realizzata con getto di alluminio verniciato, esposta per la prima volta nel settembre 2006 nella città di New York, alla Blue Mountain Gallery, nell’ambito di una personale intitolata “The Tsunami Project”. La recensione della mostra riportata di seguito è stata pubblicata sul numero del dicembre 2006 della rivista SCULPTURE.
Cornelia Kubler Kavanagh
Una delle esperienze artistiche più stimolanti è vedere le proprie idee precostituite completamente sconvolte da un’opera che sfida che normali aspettative. Questo è l’effetto delle sculture TSUNAMI di Cornelia Kubler Kavanagh, che ho visto in anteprima per la sua personale alla Blue Mountain Gallery di New York del prossimo settembre. Uno tsunami è universalmente temuto perché reca con sé distruzione di massa, ma queste sculture rivelano un paradosso: uno tsunami, se potesse essere fermato, avrebbe una forma spaventosamente bella. Kavanagh ha creato una dozzina di sculture diverse che riproducono la sublimità essenziale di onde gigantesche. Non sorprende che Kavanagh sia giunta a questo tema provocatorio, visto il devastante tsunami che ha colpito il sud-est asiatico nel dicembre 2004. Gli artisti spesso sentono un bisogno viscerale di rispondere ad una crisi. Tuttavia, come scultrice, Kavanagh si era preparata a questa risposta molto prima. Suo padre, George Kubler, era un eminente storico dell’arte, noto per il suo testo The Shape of Time, inspirato ad una precedente pubblicazione, The Life of Forms in Art, di Henri Focillon, da lui tradotta dal francese. Ambedue i libri sostengono che tutte le forme, le opere d’arte, i manufatti e persino gli attrezzi sono subordinati a concetti condivisi in un certo arco temporale, prescindendo dallo stile. Come è ovvio, Kavanagh è cresciuta imbevendosi di idee sulla forma. Quando, dopo essere stata insegnante e madre di famiglia, ha iniziato a creare sculture, inevitabilmente ha seguito un percorso che l’ha portata ad esprimere l’essenza della forma in maniera dichiarativa. L’opera immediatamente antecedente alla serie TSUNAMI, intitolata “The Shape of Time,” è stata esposta alla Biennale di Venezia del 2005, dove Kavanagh ha rappresentato il Council of the Arts delle isole Vergini americane. Le sue sculture di quella serie assumono varie forme astratte che spesso alludono ad oggetti realistici. George Kubler è stato pioniere nel campo dell’arte precolombiana e uno dei pezzi di Kavanagh, CHACMOOL, fa argutamente riferimento ad una figura reclina dominante nella scultura precolombiana. Ha inoltre degnamente celebrato le quattro stagioni in THE FOUR SEASONS e prima dello tsunami, anche il mare ha trovato posto nelle sue forme a conchiglia. Il suo lavoro ha chiaramente subito l’influsso dell’elegante gruppo dei primi scultori modernisti tra cui Brancusi, Henry Moore, Barbara Hepworth e Isamu Noguchi, le cui opere sono considerate la scultura più elevata dello scorso secolo. Con le sue TSUNAMI, tuttavia, Kavanagh ha abbandonato il tono elevato, al quale è subentrato un senso di urgenza. Prendendo le misure di questa nostra epoca inquieta, il senso di purezza dell’opera che l’ha ispirata ha subito una trasformazione. Le TSUNAMI, opere accelerate, trasmettono l’assalto della vita contemporanea nel senso più ampio del termine, tanto da far quasi pensare all’ideale di velocità che caratterizzava il futurismo più spinto all’inizio dell’altro secolo. Le TSUNAMI di Kavanagh hanno bordi più spigolosi delle opere tipiche dei suoi predecessori. Descrivendo la meccanica di uno tsunami, l’artista dice che fende tutto ciò che incontra sulla sua strada. Le sculture hanno una dinamica naturale: l’immensa onda arcuata con cui uno tsunami inizialmente fa sentire la sua presenza è seguita da quella che l’artista definisce un’onda di ritorno, un’onda più piccola che si muove in direzione opposta, particolarmente potente proprio per queste sue caratteristiche. Le varie interpretazioni dell’onda e dell’onda di ritorno danzano in modi diversi. Talvolta, l’onda di ritorno sembra un’appendice. In un pezzo, invece, le due si ricongiungono in ciò che pare un bacio. Quanto al colore delle sculture, è anch’esso importante, poiché Kavanagh ha scelto vari blu per rispecchiare la tonalità cangiante del mare, ed è vernice per carrozzeria applicata su polistirene rivestito di gesso, una tecnica indubbiamente innovativa. Kavanagh desidera diffondere le sue TSUNAMI, portate alle dimensioni di opere pubbliche, in tutto il mondo perché è persuasa dell’effetto assolutamente positivo che potrebbero generare sia a livello di ulteriore sensibilizzazione al fenomeno che in termini di raccolta di fondi per le vittime. L’esaltazione di un evento terrificante è un’apparente contraddizione che potrebbe risultare difficile da assimilare, ma è quel tipo particolare di tensione che è propria dell’arte ai massimi livelli.
Curatore Paolo De Grandis
Testo a cura di William Zimmer
Con il sostegno di United States Virgin Islands
USA
Christo and Jeanne-Claude
Tra i grandi protagonisti di quella splendida stagione artistica chiamata Nouveau Realisme, genialmente seguita da Pierre Restany, Christo si è distinto per un suo personale percorso che, pur rimanendo nell'ambito della poetica del gruppo, ha saputo in qualche misura rendere personale e unico, innestando al suo interno i frutti della Land Art, con una attenzione però ai luoghi e alle loro peculiarità che prelude e si innesta in quella vena ecologista di matrice no global oggi così presente e viva nella nostra società. Christo avrebbe potuto proseguire la sua già sorprendente carriera continuando ad “impacchettare” oggetti e cose, facendo cassa come molti dei suoi compagni di strada, ma la sua curiosità intellettuale e in parte anche il fortunato sodalizio con la sua compagna Jeanne-Claude, ne hanno deviato il percorso verso le grandi installazioni e le grandi performance artistiche, creando eventi che hanno sorpreso e sedotto milioni di persone. Lo stravolgimento dei luoghi, di volta in volta scelti per le loro straordinarie installazioni, va di pari passo con la loro capacità di rispetto e a volte di riqualificazione di questi stessi luoghi che spesso vengono restituiti, dopo i loro interventi, integri, migliorati e spesso ripuliti. L'opera scelta per OPEN è un impacchettamento storico che, come tradizione, non svela il suo contenuto celandolo al nostro sguardo. Il senso di mistero e di curiosità che esso provoca, nella sua mancanza di indizi su un contenuto noto solo all'artista, è la parte più intrigante del suo essere opera d'arte e che, proprio in questa sua non rivelazione, racchiude il suo messaggio il suo contenuto intellettuale il quale lascia aperta allo spettatore ogni possibile congiuttura in merito. L'opera di Christo è, nel suo dipanarsi dagli inizi ad oggi, un'opera estremamente contemporanea e fortemente moderna, grazie ai suoi connotati che attraversano le fonti basilari del pensiero moderno, dalla comunicazione di massa alla ecologia, dal glamour all'ambiente, dall'uso della fotografia e del plotter a quello del disegno e della pittura, così come l'uso delle più moderne tecnologie e dei più moderni materiali necessari per la realizzazione dei suoi sorprendenti happening. L'opera di Christo e oggi di Christo e Jeanne-Claude diviene quindi, in virtù di tutte queste componenti, forse l'opera più sorprendentemente vicina al mondo contemporaneo, definendo un percorso artistico tra i più significativi di questa nostra epoca.
Curatore Vincenzo Sanfo
Courtesy Christo and Jeanne-Claude
Con il patrocinio dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America
USA
Daniel Rothbart
Daniel Rothbart si presenta come un artista americano della nuova generazione i cui interessi non si fermano all'indagine del linguaggio dell'arte, ma spaziano nelle varie interazioni che il sistema dell'arte può offrire oggi ad un operatore artistico. Studioso dei sistemi culturali e degli ambiti con cui l'arte interagisce, promuove, attraverso la parola e la propria prassi lavorativa, revisioni globali dei fondamenti culturali su cui si muove l'Arte Americana del dopoguerra, affermandone la forte peculiarità rispetto all'Europa. Attraverso una nuova formalizzazione dell'identità americana nella sua specificità multiraziale e multidisciplinare, Rothbart afferma la necessità di affrontare da un punto di vista totalmente nuovo la complessità del contesto del Nord America, facendo affiorare al proprio interno valenze inesplorate quali quelle religiose, sociali, storiche e culturali. Il mondo della cabala diviene nella sua opera un fondamento centrale della sua simbologia artistica, che viene quindi visualizzata come mitologia ideologica di un retroterra autonomo, punto di risoluzione di una matrice storica che ha accompagnato il formarsi della nuova arte in America.
L'opera di Rothbart apre un fronte paradigmatico dove la concettuallità esce dall'auto-referenza "dell'arte per l'arte", per diventare motore culturale capace di far emergere nuove potenzialità e funzioni per l'arte stessa: il mito diviene nel suo fare un luogo di memoria attiva, che può far affiorare nuove attitudini per i linguaggi della creatività e al tempo stesso promuovere una rinnovata attenzione per le esigenze di un'umanità sconvolta e frantumata, che vuole ancora riaffermare la propria presenza e identità. Affiora, nell'opera di questo artista, la cultura del ricordo non razionale ed irreale legata al mondo dei miti, che si visualizza come
sedimentazione storica della conoscenza e del vissuto e si rafforza nell'opposizione all'altra cultura contemporanea, cioé a quella legata all'irreversibilità dello sviluppo scientifico nella sua sfrenata velocizzazione dell'informazione e della comunicazione e al mondo delle clonazioni genetiche e mentali. Il mondo fantastico del mito diviene pertanto fondamento per una riconsiderazione del sacro come deposito interattivo in grado di formalizzare i codici e le vie dei contesti culturali. "Semeiotic Street", un termine inventato dall'artista, diviene il palcoscenico dove avvengono gli scambi simbolici degli avvenimenti sociali e culturali, il luogo in cui si accumulano le valenze segniche dei comportamenti collettivi nelle loro aspirazioni emotive e spirituali.La strada diventa quindi lo spazio dove sedimentano i segni del vissuto e si accumulano le esperienze di relazione ed i rapporti sociali fra gli individui.Rothbart, sviluppando sempre più la relazionabilità fra le cose e gli individui come fondamento dell'esperienza umana, lavora attualmente
sui miti dell'arte del cinema e anche sul mito del gioco d'azzardo, in quanto elementi che animano lo spettacolo della vita e della cultura. Essi diventano, nell'immaginario sociale, elementi operativi ed emblematici in grado di creare un ambito semeiotico articolato di identità culturali e comportamentali. Egli é interessato a lavorare all'esterno sopratutto nella strada, in quanto luogo collettivo dove si sedimentano i segni della vita vissuta e si accumulano le esperienze. Quando egli individua un luogo che attira la sua
attenzione, Daniel dispone in esso delle ciotole di alluminio e documenta l'azione attraverso fotografie. Gli oggetti, grazie all'intervento di fattori esterni e non previsti, vengono riempiti di significati transitori e aprono a differenti significazioni e spostamenti inattesi di senso. Questo carattere di transitorietà e incertezza, di nomadismo e sradicamento geografici e semantici, costituisce l'elemento centrale del progetto di Daniel Rothbart. La sua arte diventa sopratutto "operatività di una pratica artistica" che si sostituisce alla rappresentazione e alla semplice appropriazione delle realtà e della natura. Infatti in molte occasioni non si limita al solo uso della macchina fotografica ma ritrae attraverso la camera video delle vere e proprie performances che egli ama provocare, sia con le persone che egli invita, che col pubblico che spontaneamente vi partecipa. Egli intitola questa performance "Mediazione/Meditazione". Questa azione viene guidata dall'artista stesso, il quale filma con una videocamera i vari interventi da lui suscitati. Il dispositivo che genera la performance è una grande ciotola di alluminio con all'interno un grande battacchio, che il pubblico è obligato a usare in quanto elemento neccessario alla scena. I due oggetti forniti
dall'artista e la presenza della videocamera diventano quindi la componente obbligatoria di ogni prestazione, ma forniscono al tempo stesso l'occasione di mettere in libertà ed in cortocircuito la creatività dei singoli partecipanti. In tale dispostivo i termini Mediazione/Meditazione entrano in dialettica tra loro in quanto i due
termini sono messi a confronto e in evidenza reciproca. La "meditazione" è infatti l'opposto del concetto di "mediazione" o "pacificazione" e il significato di quest'ultima definizione caratterizza la precedente: la "meditazione" avviene per mezzo della pacificazione con sé stessi e con la "mediazione" fra corpo e anima.
"Meditation/Mediation" indaga i rapporti tra oggetto e contesto e tra identità differenti, cioé l'artista, l'opera, il pubblico ed i rapporti sociali fra gli individui.
Curatore Enrico Pedrini
Con il patrocinio dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America
USA
John Henry
Da quarant’anni, John Henry è all’avanguardia della scultura contemporanea e, come dimostrano le due opere presentate ad OPEN2OO7, continua ad essere estremamente prolifico, spingendo verso nuovi limiti le forme lineari che hanno definito il suo lavoro sin dai giorni del pre-costruzionismo a Chicago, all’inizio degli anni Settanta. Sebbene abbia esordito come pittore nei primi anni Sessanta e, nel tempo, si sia espresso con molti materiali scultorei, il suo primo amore e i principali materiali della sua opera sono l’acciaio e l’alluminio saldati. I pezzi esposti, “Traveler” e “Zach’s Tower”, ambedue di dimensioni modeste rispetto alle sue opere monumentali note in tutto il mondo, incarnano anch’esse il suo notevole senso della scala e dell’equilibrio. Usando gli elementi lineari dei suoi pezzi come linee nello spazio, l’artista, infatti, magistralmente individua il punto di equilibrio, che spesso suggerisce una sfida alla gravità e ogni opera, indipendentemente dal suo peso, ispira nello spettatore leggerezza e senso di movimento, ricongiungendosi in tal senso al monumentale “Illinois Landscape #5”, nel Nathan Manilow Sculpture Park della Governors State University, o ad “Alachua”, nel campus dell’University of Florida. Negli ultimi anni, John Henry ha trascorso parecchio tempo in Europa assorbendone i canoni estetici, e questo periodo di riflessione si è espresso nel suo lavoro, attraverso le sue mani e il suo cuore. La “Cathedral Series”, ispirata alle grandi cattedrali che l’artista ha studiato in Italia, ha dato vita ad una serie di opere che, per quanto rese più terrene dalle massicce forme trapezoidali verticali, comunque emanano l’emozione spirituale provata nelle cattedrali, quel senso di ascesa verso i cieli, una sorta di equilibrio tra la nostra umanità e il nostro rapporto con l’universale. Sebbene, negli anni Settanta, alcuni lo abbiano ricondotto al movimento minimalista, le forme geometriche che da oltre trentacinque anni definiscono l’opera di John Henry si basano, da un punto di vista storico ed estetico, sul costruttivismo. L’artista, costantemente impegnato nel rispetto della materialità della sua opera, insiste fermamente sulla necessità di mantenere l’integrità del processo e dei materiali nello sviluppo del suo vocabolario visivo. Inoltre, benché le sue sensibilità estetiche derivino dal suo intuito creativo e dalla sua esperienza di vita, John Henry, artista che non teme la tecnologia contemporanea e l’era dell’informatica, si è sempre dedicato alla ricerca di tecniche e processi nel tentativo di realizzare sempre più compiutamente la sua visione, per cui il suo impatto sulla scultura monumentale e la nozione di arte pubblica in generale negli ultimi quarant’anni non ha pari.
Le due opere di John Henry presentate ad OPEN2OO7 confermano il suo ruolo di eminente scultore internazionale. Certo del suo linguaggio visivo, l’artista continua ad esplorare con una passione che, negli anni, non è mai venuta meno, una passione che, viceversa, è alimentata dal suo gusto per la vita e dell’esplorazione della sua esperienza personale attraverso la sua arte. In questa serie di opere vi sono una maturità e una sensibilità notevoli, specchio di un artista che continua a produrre alcune delle sculture più importanti create all’inizio di questo XXI secolo.
Curatore Ken Rollins, Interim Executive Director Tampa Museum of Art, Florida
Con il sostegno di Art Enterprise, Kanter Family Foundation, Dr. and Mrs. Wayne Lose, Dr. Walter Scott, Arris Foundation
Con il patrocinio dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America
USA CINA
Shan Shan Sheng
Abacus 1046-771 a.C. (Dinastia Zhou occidentale) di Shan Shan Sheng dalla serie “Le antiche invenzioni cinesi”
Nelle sue opere, Shan Shan Sheng fonde insieme Oriente e Occidente, passato e presente, tecnica ed espressione: trasformando i suoi vividi colpi di pennello in vetro traslucido e le innovazioni del passato in forme moderne, invita chi guarda a vedere attraverso il tempo e la materia per una visione d’insieme unica.
Cresciuta in Cina, Sheng ha perfezionato la sua educazione e il suo sviluppo artistico negli Stati Uniti stabilendosi a San Francisco. Percorrendo a ritroso la via di Marco Polo, l’esploratore veneziano che visitò la Cina e prese nota di tutti gli incontri fatti lungo quel fantastico viaggio, la Sheng ha scoperto a Venezia il modo di tradurre in forme nuove e su larga scala la pittura espressionista astratta. Dal 1999 collabora a stretto contatto con i maestri vetrai di Murano mescolando e componendo pigmenti per le sue sculture e installazioni, segnate da striature eteree e macchie di colore che riflettono la sua mano e il suo tratto. Questa venerabile antica tecnica occidentale offre la via ideale per infondere un respiro di freschezza nelle tradizioni orientali che hanno formato la sua infanzia e continuano a plasmare la sua prospettiva.
Sheng scava nella sua eredità culturale nella serie “Antiche Invenzioni Cinesi”, riesumando qui l’abaco, il pallottoliere, un meccanismo per agevolare le operazioni di calcolo che precede di gran lunga l’insostituibile calcolatrice dei giorni nostri e ha la caratteristica di rendere tangibile il calcolo numerico. Ancora in uso per insegnare ai bambini a fare somme, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, non è necessario che l’abaco acquisisca lo status di obsoleto pur nella frenetica rapidità dello scambio d’informazioni dell’era tecnologica che consuma la società contemporanea. E tantomeno dobbiamo noi abbandonare quelle tradizioni che fanno di noi una nazione per raggiungere la c.d. integrazione delle culture e scavare il sapere, come sottolinea la Sheng usando il suo personale modus operandi per illustrare principi universali. Le sfere, che sembrano gemme, del suo abacus fanno scorrere questa transizione senza laccare gli elementi che in-formano i nostri complessi calcoli.
Margery Gordon
Margery Gordon si occupa d’arte e scrive per diverse riviste e pubblicazioni internazionali inclusi: Art+Acution, ARTNews e ArtInfo.com.
Curatore Margery Gordon
Con il sostegno di Berengo Fine Arts, Murano