Francia
Tamara Landau, Jean-Pierre Landau, Bruno Contensou
Lo spazio crea il tempo e il sogno, si tratta del primo atto della creazione. In questa installazione Tamara Landau, scultore e psicanalista, Jean-Pierre Landau, pittore e psicanalista, e Bruno Contensou, scenografo, organizzano un palcoscenico dove si misurano la parte non-cosciente dell’artista, il sogno e il tempo. Il cassone pubblicitario, anziché uno specchio di sogni illusori diventa qui autentico gesto creativo. Una specie di cassa di risonanza intima che mette in collegamento i desideri/bisogni propri del corpo, con la memoria dell’individuo e il tempo che passa. L’ombelico del sogno si mostra nel pieno delle sue funzioni, vero cordone telefonico che lega/collega la parte incosciente del soggetto con lo spazio e il rumore del tempo. Il passaggio su un tappeto rotante collega idealmente sogno e realtà catturando l’attenzione dei passanti che guardano l’atto creativo dell’artista. Questo meccanismo tra vero e suggestione imprime un movimento alle immagini del sogno lasciando negli occhi e nell’anima un’impronta che dura. Nello spazio del sogno la categoria del tempo resta sospesa tra il presente e il futuro che risulta già trascorso (passato), perché nell’incoscienza spazio e tempo coincidono. I brandelli di ricordo e le immagini poetiche del sogno sorgono direttamente dall’incoscienza dell’artista, appena cullati da un soffio vitale, desiderio sessuale e sensoriale d’eternità appena suggeriti. Da molti anni Tamara Landau e JeanPierre Landau traducono in un linguaggio artistico l’indicibile dei soggetti. Utilizzando la scultura come rivelatore delle zone insondabili dell’incosciente, Tamara Landau ha potuto concretizzare la sua teoria sulla memoria, il tempo e il sogno trasmessi dalla madre già prima della nascita.
Tamara Landau, autrice di L’impossible naissance ou l’enfant enclavé, éditions IMAGO. Tamara Landau e Jean-Pierre Landau hanno fondato MNEMOART, un gruppo sperimentale che elabora l’arte, la psicanalisi e la scienza come una scrittura poetica contro l’oblio.
Testo a cura di Anna Caterina Bellati
Germania
Paul Elsner
Personalità complessa quella dell’artista tedesco Paul Elsner, ricca di sfaccettature, fluttuante nell’imaginifico, seppur saldamente ancorata ad un solido mondo concreto, affondando le sue radici nel mito, nella storia, nella tradizione, rispettandone i valori anche quando si lancia in avventure proiettate verso il futuro tecnologico.
Paul Elsner è anzitutto uno studioso approdato alla tecnologia attraverso severi studi tecnico-scientifici. Il mondo in cui fa muovere i suoi progetti è quello attuale, spinto verso spazi sempre più ampi. Elsner avanza sul terreno dell’arte quale attento e sensibile osservatore degli accadimenti della sua Città, di cui conosce ogni piega. Ama procedere in un’indagine geografica, storica, politica di Dresda, non avulsa dal passato più recente da cui l’artista sembra voler prendere le dovute distanze, forse perché non tutte le ferite sono rimarginate. Le installazioni di Elsner sottolineano il loro carattere tecnologico ed evidenziano la funzionalità dei materiali impiegati, per lo più vetro o vetro acrilico, utilizzando in qualche caso addirittura le facciate di vetro dei palazzi su cui giocare con la luce. E qui l’elemento luce si trasforma da strumento di illuminazione a esaltatore del dettaglio, creatore di suggestioni, mutando la percezione dello spazio e del rapporto tra gli oggetti ivi contenuti. Le fantasiose installazioni di luce di Elsner decorano la città con innovativi effetti scenografici. Luce e specchio sono i due elementi fondanti nella creazione dell’opera "Paradise-Paralyze", con cui Paul Elsner rappresenta la Germania a OPEN XI. Un grande specchio circolare, convesso, di m 1,50 di diametro, è appeso al di sopra della gradinata d’accesso all’Hotel Des Bains al Lido di Venezia, e riflette un’immagine lievemente distorta di coloro che vi si appressano e dell’ambiente circostante. Al calar del giorno, si percepisce, dietro allo specchio, l’astrazione di un occhio luminoso, nella cui pupilla si evolve un movimento rotatorio continuo, come per le lancette di un orologio o di un radar. La luce ha valore di verità: è la luce a disvelarci il mondo. Si presentano simbolicamente nell’opera dell’artista tedesco le facce di un’emblematica medaglia, forgiata all’urgere di problemi e di cambiamenti sociali repentini. Occhio e specchio si integrano quale metafora dei valori essenziali che nella nostra epoca, caratterizzata dal culto mediatico, sembrano venir meno. L’occhio ci è stato tramandato quale simbolo di Dio onnisciente. Ma questo motivo può purtroppo richiamarsi anche all’occhio che spia in un regime totalitario, che esclude ogni casualità, ogni imprevisto, controllando il tutto. Il desiderio esasperato di chiarezza ha portato per converso, all’epoca della Rivoluzione francese, all’Illuminismo. Nei regimi totalitari più recenti, al controllo operato dalle varie Polizie segrete, ogni informazione riportata poteva essere non solo pericolosa, ma diventare un’arma pietrificante, come allo sguardo paralizzate di Medusa, la Gorgone dotata di un potere magico di efficacia devastante. Lo sguardo uccide. Lo sguardo ammalia, fulmina, seduce, poiché è uno strumento dell’anima. Elsner fa suo il motivo dell’occhio paralizzante dei racconti mitici del mondo celtico e dell’antica Grecia e, come Jean Paris, che ha tentato di fondare una critica delle arti visive sullo sguardo e sul modo in cui esso “s’impone, si muta, si nega”, sottolinea la corrispondenza biunivoca fra lo sguardo che osserva e l’oggetto osservato. Lo sguardo è simbolo e strumento di una rivelazione e la Medusa - riprendendo il pensiero di Paul Virilio ne “La macchina della visione“, Parigi, 1988, - rappresenta una sorta di circuito integrato del vedere, che sembra annunciare un futuro terribile alla comunicazione. Dal 2005 ad oggi il percorso artistico di Elsner è segnato da una serie di importanti progetti, tappe di un excursus che dal divieto alla comunicazione con la messa al bando dell’”Arte degenerata”, portano ad un recupero dei valori essenziali. Fra quelli più recenti, ricordiamo “Der lichte Wald” (Il bosco rado), installazione creata nel 2007 per la Galleria d’Arte del Delikatessenhaus di Lipsia: su strisce di vetro verticali, oscillanti alla brezza, è proiettata l’immagine, manipolata al computer, di un bosco di betulle. Frammenti reali e virtuali, implicanti un processo visivo-spaziale, vanno stratificandosi alla riflessione e deviazione dei fasci di luce. L’esito artistico sottende un operoso cammino di ricerca della verità. Elsner si muove nell’amato e ad un tempo temuto bosco nordico, luogo di smarrimento, come nella favola di Grimm, ma anche rifugio sicuro. Un senso nostalgico lo riporta alla "Waldeinsamkeit" romantica; il bosco allora si fa oasi di quiete, lontana dall’ansia che attanaglia il "Global village". Ma il bosco di betulle rimanda inevitabilmente a "Birkenau" e un’ombra cupa si allarga evocando un oscuro passato recente. L’arte di Elsner ha dunque un valore evocativo ed educativo anche per le generazioni a venire. Da questo lavoro emerge un impegno storico-politico dell’artista, estraneo a qualsiasi ideologia, che apre la strada alla discussione, già dimostrato nel 2006 con la video-installazione "Ströme" (Correnti) per l’Anniversario del bombardamento di Dresda del 13 febbraio 1945. Associandosi all’iniziativa civica "Bürger.Courage" contro il reflusso dell’estrema destra, si è richiamata l’attenzione sulle conseguenze deleterie del pensiero e dell’azione neonazista. Nel progetto, patrocinato dal Presidente del Bundestag, Wolfgang Thierse, l’Elba diventa il luogo della memoria. Dall’Augustusbrücke, nell’oscurità, vengono proiettati sulle sue acque testi di scrittori e poeti ispirati alla tragica distruzione di Dresda, tra cui Durs Grünbein, Volker Braun e Christian Lehnert. Le parole affiorano in superficie, assumono forma e leggibilità e scompaiono inghiottite dalla corrente. L’Elba diviene culla e ultimo approdo della cultura, della tradizione, dell’arte di un popolo che ha fondato le sue sedi lungo le sue rive. Elsner come Virilio teme i futuri sviluppi comunicativi in un mondo globale; per questo ha voluto dare alla sua arte voce collettiva e ad un tempo "monocorde" con la creazione del Gruppo Lumopol, con cui opera in campo artistico con sempre rinnovato successo.
Testo a cura di Nevia Pizzul-Capello
Germania
Rolf Bienentreu
Solo speranza nessuna risposta
Specie di specchio profondo.
Narciso durante l’atto creatore mentre sogna davanti al buco della sua paura.
A che punto si è creata la frattura
Quando lo sguardo di chi avrebbe dovuto sorvegliare era assente?
E le parti opache dello specchio diventano le parti opache dell’anima.
Rolf Bienentreu
Voltarsi e vedere un doppio di sé, un’immagine speculare filtrata attraverso la lente dell'anima. Un Doppelgänger benevolo che ci rende lo sguardo, ma con un valore aggiunto, fatto di ricordi e sensazioni. È un ventaglio di emozioni, a volte contrastanti, quello che si prova nell’ammirare le opere di Rolf Bienentreu. Sarà perché, prima ancora che artista, è un conoscitore della psiche umana, capace di sondarne aspetti nascosti, segreti o, più semplicemente, trascurati. Nato a Duisburg, in Germania, nel 1951, studia medicina e diventa pediatra. Intanto, si interessa all’arte - dai primitivi tedeschi ai contemporanei Rheinsberg, Tàpies e Beuys - e approfondisce gli studi sulla psiche infantile. Questa fascinazione per la mente umana si riflette nei suoi gusti artistici: l’amato Joseph Beuys, per esempio, lo "sciamano" per molti ermetico, si è sempre concentrato nella ricerca dell’Io animale di ciascuno di noi. Allo stesso modo Rolf Bienentreu con le sue opere cerca di rivelarci una nostra identità interiore. E lo fa attraverso tavole di legno antico (perché il tempo porta con sé vita e ricordi), di essenze solide e resistenti cresciute tra le montagne, capaci di resistere nei secoli e, per questo, "cariche" di tempo e di ricordi. Trascorre ore a piallarle, lisciarle, addomesticarle. E le trasforma nel supporto ideale dei suoi dipinti. Dove i volti diventano riflessi dell’essere e i panorami ricordi. Tutto è come visto attraverso un velo d’acqua (in fondo l’essenza della vita è che tutto scorre, come sosteneva Eraclito), immobile e vibrante a un tempo. Le sue opere sono come degli Ukiyo-e su legno, porzioni di un mondo fluttuante che si fa strada attraverso infiniti strati di vernice che, paziente, l’artista passa e ripassa sulle sue tavole, creando un’illusione di profondità (non a caso le ha chiamate "specchi profondi") come profondo è l’animo umano. Attraverso questa ricerca ha raccontato amori perfetti, suscitato emozioni, evocato ricordi. A Open, attraverso quattro grandi planches (misurano 192x98 cm), Bienentreu lancia una sfida ai visitatori: superare il banale narcisismo nel guardare la propria immagine riflessa tal quale per guardare oltre, osservare volti distorti e deformati, dai contorni mutevoli, come mutevole e cangiante è la realtà. Per cogliere, anche solo per un istante, l’essenza dello spirito.
Testo a cura di Fabiana Fruscella
Giappone
Tsuchida Yasuhiko
Alcune opere d’arte parlano di necessità. "Innocent Garden" nasce dalla necessità di Tsuchida Yasuhiko di ritrovare l’innocenza, propria di un bambino, per comunicare messaggi che siano in grado di scuotere l’animo del fruitore e di renderlo consapevole dell’importanza di possedere una propria responsabilità sociale.
Come la natura anche l’uomo racchiude in sé un processo generativo ed evolutivo nel quale le forme della realtà e dell’anima prendono corpo attraverso continue trasformazioni. L’opera, che rievoca il ricordo di una notte d’estate, quando l’artista per la prima volta vede una lucciola brillare, presenta una complessa e ricercata simbologia e intende ricreare un microcosmo che animi e trasformi l’universo. Simbolo dell’innocenza sono i cuori in vetro soffiato di Murano che s’illuminano come lucciole in un rapporto tra forma e natura, frutto di un’intesa intima e profonda tra uomo e universo. "Innocent Garden" vuole essere un complesso gioco di interazione e scambio tra design, scultura, architettura e ambiente circostante: una sorta di unione di più arti che sembra ricollegarsi alla filosofia dell’architetto americano F.L. Wright, secondo il quale è indispensabile all’uomo realizzare una profonda comunione con la natura. La molteplicità dei linguaggi espressivi utilizzati è rappresentativa della complessità delle indagini che Tsuchida realizza su una tematica complicata come quella ambientale. Tenendo conto dell’insegnamento bio-architettonico dell’artista-ecologista austriaco Friedensreich Hundertwasser, l’installazione di Tsuchida, è parificabile ad un’architettura vivente intesa come costruzione organica in crescita ed essenza-linfa di vita. La verticalità è un tentativo di legare il cielo alla terra, l’acqua al sole in una sorta di congiunzione dei quattro elementi naturali che sollecita, nel fruitore, nuove esperienze percettive che impegnano non solo la mente, ma anche i sensi in uno sforzo di dialogo interiore alla ricerca di un’ innocenza sempre più difficile da ritrovare. "Innocent Garden" è il ritratto dell’essere di Tsuchida nel mondo e del suo tentativo di rendersi utile alla risoluzione di problematiche naturalistiche reali. Un percorso espressivo che muove un’indagine formale dalle ricerche, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, della Land Art che, a metà tra scultura ed architettura, si basava sulla valorizzazione e sul recupero della natura e sul contenuto noetico-estetico-emozionale. È come se in quest’opera l’artista rimuovesse le incrostazioni storiche e le sovrastrutture culturali per giungere ad un’arte priva di influenze e carica di autenticità.
Testo di Silvia Bonomini
Gran Bretagna
Marc Quinn
Il percorso estremamente articolato di Marc Quinn dimostra una certa preoccupazione per la mutevolezza del corpo e per i dualismi che definiscono la vita umana: spirituale e fisico, superficiale e profondo, cerebrale e sessuale, paradossi che Quinn sviluppa in opere concettuali sperimentali dalla forma essenzialmente figurativa avvalendosi di una serie molto eterogenea di materiali quali ghiaccio, sangue, vetro, marmo o piombo. Le sue sculture, i suoi dipinti e i suoi disegni spesso affrontano il tema del rapporto distaccato che viviamo con il nostro corpo, sottolineando come il conflitto tra il “naturale” e il “culturale” abbia una certa presa sulla psiche contemporanea. Nel 1999 Quinn ha intrapreso una serie di sculture di marmo che riproducono vari tipi di amputazione come forma di rilettura delle aspirazioni della statuarietà greca e romana e delle sue rappresentazioni di un’integrità idealizzata. Una di queste opere raffigura Alison Lapper, una donna nata senza braccia, in stato di gravidanza avanzata, opera poi successivamente ampliata trasformandola in un capolavoro dell’arte pubblica per il quarto plinto di Trafalgar Square. Tra gli altri temi principali del suo lavoro vanno citati la modificazione genetica e l’ibridismo, come in “Garden” (2000), installazione che porta il visitatore a passeggiare tra fiori incredibilmente belli destinati a non appassire mai, o nelle sculture “Eternal Spring”, che raffigurano fiori conservati in un perfetto stato di fioritura immersi in silicone sotto zero. Quinn ha inoltre esplorato i potenziali usi artistici del DNA realizzando un ritratto in cui il protagonista è costituito da filamenti di DNA estratti e conservati in provetta. “DNA Garden” (2001) contiene invece il DNA di oltre 75 specie vegetali e 2 umani in una riedizione cellulare del giardino dell’Eden. Il lavoro indubbiamente diverso e poetico di Quinn medita dunque sui nostri tentativi di capire o superare la transitorietà della vita umana attraverso la conoscenza scientifica e l’espressione artistica.
Marc Quinn ha esposto in occasione di molte personali e collettive di rilevanza internazionale quali Sonsbeek ’93, Arnhem (1993), Give and Take, Victoria and Albert Museum, Londra (2001), Statements 7, 50a Biennale di Venezia (2003) e Biennale Gwangju (2004). Tra le personali, ricordiamo Tate Gallery, Londra (1995), Kunstverein Hannover (1999), Fondazione Prada, Milano (2000), Tate Liverpool (2002), Irish Museum of Modern Art, Dublino (2004), Groninger Museum, Groningen (2006) e MACRO, Roma (2006).