Italia - STEFANO FIORESI
L’uomo viator
Avevo definito l’artista modenese Stefano Fioresi la versione aggiornata del flâneur ottocentesco, che vaga per le strade e i marciapiedi delle città metropolitane attingendo al serbatoio simbolico e comunicativo esistente per improntare la sua ricerca artistica contemporanea. Un flâneur frenetico, mutevole e curioso che attraversa la città senza strade prefissate, ma capace di trarre senso e significato dalle proprie tracce.
Dopo aver percorso gli 800 km del Cammino di Santiago di Compostela, l’artista si è letteralmente messo nei panni più antichi dell’homo viator, la figura del pellegrino medioevale che viaggiava a piedi, di città in città, di paese in paese, diretto alla meta, apprendendo un bagaglio di informazioni, usi e costumi lontani.
Il motivo del pellegrinaggio viene espresso da Fioresi, nella parte centrale dei vessilli per OPEN 16, riproducendo due opere pittoriche che interpretano il Cammino di Compostela: due coppie di viandanti sono raffigurate in movimento su un sentiero dipinto a tinte dorate, in contrasto con lo sfondo bianco e nero del collage, a sottolineare la preziosità, la bellezza e l’unicità di questa esperienza mistica e illuminante.
Lo status di pellegrino porta necessariamente con sé dei simboli che sono visualizzati nei ritagli fotografici della parte superiore dei vessilli. Innanzitutto la conchiglia, segno di vita, rinascita, purificazione e chiaro riferimento alla condizione dei pellegrini che se la cucivano sulle vesti e sul cappello - e tutt’oggi presente sugli zaini dei moderni viatori - testimonianza di aver compiuto il Cammino fino a Finisterre, dove sulla spiaggia si potevano trovare conchiglie di questa tipologia. In italiano sono dette anche “cappesante” in quanto erano un alimento di cui i pellegrini si cibavano sulle coste galiziane, tenendo per ricordo il guscio.
Altro simbolo rilevante è la Flecha Amarilla(freccia gialla), fedele compagna di viaggio: indica la direzione verso Santiago di Compostela e Finisterre. Il primo a disegnarla fu nel 1984 Don Elías Valiña, parroco del Cebreiro, con della vernice gialla avanzata da lavori stradali. La Flecha Amarilla, in direzione verticale, è tracciata manualmente da Fioresi nella parte inferiore del vessillo, a unificare l’opera pittorica e le sottostanti formelle fotografiche che riproducono texture di sentieri e pietrischi diversi fotografati dall’artista/pellegrino durante il suo itinerario. Frecce gialle quale implicito riferimento alla segnaletica stradale che costituisce il consueto immaginario dell’artista, a riconnettere questo tassello progettuale all’interno di tutta la sua poetica, in un corto circuito di rimandi letterali e poetici al tema del viaggio e del girovagare.
Testo a cura di Chiara Canali
Italia - CLAUDIA DANIELI
Claudia Danieli affronta la tela come in un ring contro l’avversario più temibile: se stessa. I suoi lavori sono d’impatto istintuale e visivo. L’estremo realismo dei ritratti è violentato dal colore che molto spesso è rosso: rosso vivo, rosso carne, rosso della passione, del fluire creativo, della vitalità.
Nell’artista non deve mai smettere di scorrere il colore altrimenti la frustrazione prende il sopravvento sull’istinto. L’atto impulsivo è strettamente collegato alla rabbia che diviene creatività esplosa e non implosa.
L’artista raccoglie i suoi impulsi, il suo alter ego dinamico e li getta nella tela con gusto espressionista, nel tentativo di correggere la staticità del reale. Avviene una duplicazione della corporeità sia nella scelta del soggetto ritrattistico (che racchiude in sé la capacità di accogliere l’anima di chi è rappresentato), sia nella violenza del gesto pittorico.
L’impatto emotivo forte non è drammatico, ma dinamico.
Nonostante la forza del colore contro la tela, la guerra dell’artista è vinta con un tacito patto tra lei e il proprio inconscio: un accordo di pura creatività.
Testo a cura di Sign On Art
Italia - CASAGRANDE & RECALCATI
La seduzione delle belle bandiere
Ho scoperto la gioiosa creatività di Sandra e Roberto già a metà degli anni Ottanta, a Scuola, sui banchi di “Storia della Critica”, una sognante materia ermeneutica che ci consentiva dei generosi, liberi viaggi immaginari nella profondità dello spazio e del tempo. Galeotto, in questo caso, fu Baudelaire e la sua città dei flâneurs.
Entrambi, per anagrafe, figli libertari e un po’ anarchici della rivoluzione del 1968, amano sperimentare l’arte sottile di narrare l’inesauribile, felice complessità della condizione umana spingendosi dentro le pieghe più profonde, all’interno delle invisibili zone d’ombra della realtà quotidiana. Utilizzano la tecnica pop, iperrealistica, del fuori-scala, dello zoom, del blow-up, proprio per penetrare con sempre rinnovato stupore - ad esempio - nel gentile spazio interno di un fiore (il loro Maestro e grande comune amico, Vittorio Locatelli, ci ha sempre incantati esplorando il mondo di un tulipano…).
Il loro occhio, sensibile e raffinato, ama osservare da vicino l’elegante e armonico movimento di animali-limiti che paiono scherzi del Creatore, come i fenicotteri dalle esili gambe affusolate e dai lunghi colli e becchi contorti, protagonisti, dieci anni fa, della grande “voliera” del Caffè delle Logge a Prato, che danzando leggeri tracciano orbite senza spigoli nell’invisibile elemento Aria. Un occhio appassionato che felicemente si perde con incantamento negli sfumati vortici sonori di colore di fiori giganteschi (come alla recente mostra milanese alla MyOwnGallery). O, ancora, che trova il suo ambiente congeniale nella dimensione di una immensa città galleggiante in perenne movimento che solca l’instabile distesa liquida dell’elemento Acqua (e allora si fa gentile Arte narrante a bordo delle grandi navi della Costa Crociere). O infine (proprio come in questo caso veneziano) in cui Sandra e Roberto affidano il loro raffinato disegno di un immateriale gioiello - heart 2 heart - al mobile agitarsi nell’aria delle belle bandiere per esibire il loro coinvolgente messaggio d’amore.
Testo a cura di Marco Dezzi Bardeschi
Italia - GAETANO K. BODANZA
Quella di Bodanza è una via narrativa e combinatoria, una specie di epopea a colori acrilici dove protagonisti e comprimari recitano la storia e la cronaca delle culture popolari. Lo sguardo assume il cortocircuito come regola prima, le convivenze fanno esplodere il tono epico degli scenari, la visione panoramica apre al cinemascope dell’invenzione d’autore. Un pop divagante e inclassificabile, filmico nell’animo ma pittorico nei risultati, curioso di sperimentarsi attraverso linguaggi che del pop sono lo strumento d’azione ed emozione privilegiata.
Personaggi dalla travolgente visionarietà, che sembrano usciti da un tubetto di colore tanto è densa la loro corporeità, poi plasmata dalla tecnologia digitale per non concedere nulla alle sbavature e prediligere un virtuosismo formale che odora di plastica e resine nel creare insolite creature sinistre e al contempo burlesche.
I paesaggi pittorici rappresentati sono affollati e brulicanti di forme, gesti e sguardi. Avulsi dal contesto di una folla entro la quale dobbiamo attentamente cercarli e riconoscerli, qui si stagliano in fondali dalla saturazione monocromatica, come si trattasse di una fototessera proveniente da un mondo alieno. Dalla folla di ominidi, insetti, personaggi dei cartoons e piccoli balocchi Bodanza estrapola ritratti a tinte forti che, dalla magma della pittura tradizionale, diventano parte di grandi tele digitali e si concretizzano in grandi sculture in vetroresina. I personaggi alieni rappresentati non hanno più nulla di realistico, ma ci guardano con occhi penetranti e dialogano con noi attraverso gesti ed espressioni dai quali potremmo trarre un curioso manuale sui sentimenti umani.
Il suo scatto di personalità sta proprio nell’agire dentro una realtà molto più estesa del vero, ricreando storie come se tutto fosse assolutamente plausibile. Tutto diviene necessario e credibile nel mondo a temperatura pop, il soggetto/oggetto si prende il riflettore dello sguardo e produce energia chimica, analisi della realtà, nuovi confini dialettici.
La convivenza linguistica è l’altro punto nodale di Gaetano Bodanza. Da sempre non esiste confine prestabilito, disegno e pittura dialogano con le elaborazioni da software digitali, la scultura sperimenta materiali e tecnologie. L’opera cerca comunque il punto limite del suo status elaborativo, evidenziando la natura falsante della tecnica, quel teatro della virtualità in cui inventare mondi attraverso altri mondi.
Testo a cura di Chiara Moro
Italia - ALVISE BITTENTE
…sul ponte sventola bandiera… No, non c’è più nessun ponte, nessun link, non sventola nessun gonfalone, nessun banner, non c’è più niente che valga uno straccio di bandiera, niente più da pubblicizzare. L’opera ha come supporto un materiale gommoso telato, quasi una camera d’aria di bicicletta, che non si gonfia più, perché la flag è diventata flat, priva d’aria, perché senza vento, né in poppa né in prua. Strappata alla sua funzione, si trova in bonaccia, una facciata è ancorata, l’altra facciata è stirata, provvidenza ironica ironing, messa in piega, acconciata, come uno yo-yo palloncino ad elio congelato nel movimento, incantesimato in un frame senza più sbandierare nulla se non la sua immobilità.
Testo a cura dell’artista