venia bechrakis
 
GRECIA - VENIA BECHRAKIS                                                                                                             

Dov’è la mia casa? 

Negli ultimi anni, una giovane generazione di artisti ha dimostrato un rinnovato interesse per la città e la casa. E, sebbene sia risaputo che l’avanguardia artistica degli inizi del XX secolo si è tuffata a capofitto nell’intossicazione religiosa della metropoli, ai giorni nostri questi riferimenti tendono ad assumere una qualità più personale, sono meno stridenti e le metafore sofisticate e paradossali. Oggi la nuova arte sta seguendo e forse portando a compimento una svolta intrapresa negli anni Venti e, successivamente, negli anni Sessanta, eppure differisce in termini di umore e spirito: al nichilismo e al formalismo autoriflessivo è subentrata una nuova sensibilità che predilige piccoli atti significativi, un’attrazione verso la città come mediatrice nei rapporti interpersonali, un’incarnazione dell’antropogeografia della dimora. Questa è la tendenza in cui vanno inquadrate le fotografie di Venia Bechrakis. Innanzi tutto è bene soffermarsi sulle tre qualità immediatamente identificabili che caratterizzano la sua opera. In primo luogo, la qualità femminile dei suoi autoritratti fotografici, che sfocia in un commento ironico su alcuni modelli di comportamento consumistici e domestici. In secondo luogo, un atto di capovolgimento che porta l’interno all’esterno: “La strada diventa qui un appartamento per un flâneur”, scrive Walter Benjamin, “il nottambulo che tra le facciate degli immobili è a casa propria come un buon borghese tra le sue quattro mura”. E, in terzo luogo, il fatto che queste estimità* non sono sempre il risultato di una manipolazione digitale dell’immagine, bensì anche della specifica azione fisica svolta in uno spazio pubblico o domestico. Come osserva Edward Soja, “nello spazio socialmente prodotto, la spazialità può essere definita dallo spazio fisico del mondo materiale e dallo spazio mentale dell’intelletto e della rappresentazione, ciascuno dei quali viene usato e integrato nella costruzione della spazialità, ma non può essere concepito come suo equivalente” (Postmodern Geographies). In ogni caso, sia la documentazione di un’azione fisica diretta nello spazio sia la manipolazione con un editor di immagini di una serie di derive e paradossi qui assume la forma di collage per collocare il corpo autodocumentato in un diverso contesto, osservazione che ci porta a dedurre quanto segue: ciò che di fatto contraddistingue gli autoritratti è la qualità dell’eterogeneità, di un tipo non organico di rappresentazione. Rosalind Krauss ha affermato che lo scopo del collage è porre l’accento “sulla distanza tra un frammento della realtà e un altro” (Amour Fou. Photography and Surrealism). Se l’opera d’arte organica realistica ha tentato di riconciliare il mondo naturale con la cultura, la qualità non organica del collage semplicemente gioca con l’eterogeneità affascinante della realtà. Non sono per nulla convinto che dobbiamo essere necessariamente scettici in merito al fatto che i metodi dell’avanguardia abbiano perso il loro precedente carattere eroico per diventare appannaggio della cultura di massa. Inoltre, la città stessa, proprio come la dimora contemporanea, non è più un elemento armonioso, soggetto a un controllo assoluto. Le nuove tecnologie dell’immagine concorrono a una realtà di reciproca sovrapposizione: l’architettura pare acquisire un carattere sempre più artistico man mano che le pratiche artistiche sembrano appropriarsi con un ritmo incalzante di elementi dall’architettura, l’epicentro restando sempre null’altro che l’avventura della percezione, la vertigine del sguardo fisso. Oggi la qualità della città, esattamente come quella della casa, non dipende soltanto dalle esigenze alle quali necessariamente risponde, ma anche dal potere dell’immaginazione, elemento colto dall’architetto tedesco Karl Friedrich Schinkel già nel 1834 con la progettazione del palazzo faraonico di Otto ispirandosi all’acropoli di Atene senza di fatto aver mai messo piede in Grecia. Assistiamo dunque a un primo caso di apoteosi del non lieu, nozione alla quale tutto oggi pare riferito. E possiamo, volendo, spingerci ancora oltre per giungere al magnifico travisamento di Toledo da parte di El Greco (1595-1600), in cui l’artista arbitrariamente sposta il fiume e il campanile modificando l’ubicazione degli edifici. Ciò che più conta adesso, però, è la capacità dell’arte contemporanea di trasformare il luogo più comune, l’aspetto più banale in qualcosa di speciale. Tutte le letture della città e della dimora sono giocoforza un equivoco. L’unica interpretazione possibile è un’errata interpretazione. La nuova alleanza tra pratiche artistiche e percezioni dello spazio ha innanzi tutto a che vedere con la funzione dell’immagine. “Quella ricerca della mia casa (…) mi divora”, scrive Nietzsche in Così parlò Zarathustra: “Dov’è la mia casa? Questo chiedo e cerco e cercavo: questo non ho trovato”. È una domanda tutt’oggi pertinente, una domanda che in qualche modo pare riecheggiare nelle fotografie di Venia Bechrakis... 

*Estimità: traduzione italiana del neologismo coniato dallo psicanalista Jacques Lacan extimité [dal prefisso ex (exterieur) e intimité (intimità)].

 

Testo a cura di Yorgos Tzirtzilakis