ITALIA - JESSICA SOFFIATI
Una giovane artista con interessi che spaziano dalla fotografia all’installazione in particolare di impostazione scenografica, con un’attenzione rivolta a un comune filo conduttore costituito dal valore della luce. Si tratta, come lei stessa ama definirle, di una sorta di sculture di luce che vagamente ricordano certe soluzioni magistralmente anticipate da Lucio Fontana. Fondamentalmente, però, in questo caso ci troviamo di fronte a dei kirigami, degli origami che presentano tagli, scuri all'esterno e bianchi all'interno. Alcuni neon illuminano l'interno in modo da creare candide forme geometriche consentendo alla luce di uscire dalle fessure segnate tra le varie pieghe come se scaturissero da spaccature del terreno. Le sculture, in effetti, nelle intenzioni dell’artista sono rivolte a simulare delle zolle di terra, quasi a voler significare i rapporti antitetici impliciti nei valori simbolicamente opposti del bianco e del nero, coinvolgendo l’osservatore nella creazione diretta di forme suggestivamente invisibili al buio ma che, come per magia, possano accendersi improvvisamente rivelando la propria presenza tramite sensori di registrazione dei passaggi e dei vari movimenti, sensori posizionati in punti precisi di un palcoscenico ideale.
Jessica Soffiati ha realizzato tali sculture utilizzando delle lamiere metalliche in cui sono collocate delle luci a tenuta stagna, in modo che si accendano quando è completamente buio.
Tagliate e sagomate in vari punti seguendo uno schema geometrico segnato da linee rosse e blu vengono così piegate fino a formare ipotetici rilievi montuosi ben amalgamati nel contesto naturalistico dell’isola e rivolti a simboleggiare una terra che si apre, che si spacca, una terra scura e misteriosa con un'anima luminosa, simbolo di infinito alle soglie immaginifiche tra visibile e invisibile.
Testo a cura di Saverio Simi de Burgis
ITALIA - MARCO MARIA GIUSEPPE SCIFO
Lungo le dighe foranee che si inoltrano nel mare e che segnano gli ingressi del porto al Lido a sud e a nord dell’isola, abbiamo la consuetudine a imbatterci nei tetrapodi che le costeggiano, mostruose figure geometriche solide utilizzate quali ideali frangiflutti che ci accompagnano nei nostri percorsi lidensi fino ad arrivare alle piazzole con i rispettivi e opposti svettanti fari. Sicuramente con l’ultimazione dei lavori del Mose sia a San Nicolò che agli Alberoni, vedremo il moltiplicarsi di tali strutture utilizzate prevalentemente per contrastare le mareggiate, onde garantire prosecuzione e durata a tutti i lavori previsti nei progetti dei siti, destinati a modificare notevolmente l’assetto ambientale di tali aree concepite per accogliere porticcioli con rispettivi posti barca e parchi sulla spiaggia dove già le evidenti bonifiche anticipano i conseguenti futuri sviluppi. Probabilmente Marco Maria Giuseppe Scifo, per il suo intervento a San Servolo, ha pensato di utilizzare il tetrapode quale simbolo del cambiamento in corso cercando di assecondarne le prerogative estetiche, spesso eluse, dall’artista, invece, riconsiderate a livello progettuale e dei materiali utilizzati, non nel suo caso il freddo e invasivo cemento, ma l’organico legno, emblema della naturale corruzione della materia, ma anche del suo rigenerarsi e della conseguente necessaria cura che si dovrebbe avere nei confronti di qualsiasi opera umana. Un’interessante indagine a livello modulare, tecnico-scientifico e organico con l’intenzione di restituire l’arte a un intrinseco rapporto con le scienze, ma sempre inteso nel pieno rispetto con la natura. Concludendo con le stesse parole di Scifo “il volume in metri cubi dei due tetrapodi ora ubicati nell’Isola di San Servolo non è spazio occupato da forme, ma è la capacità di un insieme molecolare inscritto in un luogo”.
Testo a cura di Saverio Simi de Burgis
ITALIA - EMANUELA RIZZO
Emanuela Rizzo propone un interessante recupero del rapporto spazio-immagine che indicativamente denomina Souvenir d’espace. Souvenir come ricordo del luogo, topos utilizzato nell’antica arte della memoria, come richiamo alle immagini le quali a loro volta rimandano ai fantasmata che consentivano all’antico retore classico e poi medievale di esprimere i suoi concetti, o, ancora più creativamente, di alimentare l’effetto caleidoscopico dell’indispensabile immaginazione poetica. La mnemotecnica, così come l’ha mirabilmente ricostruita nei suoi studi Frances A. Yates, costituisce un antichissimo metodo di apprendimento pedagogico, improvvisamente svanito con la morte di Giordano Bruno che consentiva, come in un ideale teatro della memoria, di collegare in termini sapienziali le diverse conoscenze dei più disparati ambiti disciplinari. Nel suo progetto en plein air, Emanuela Rizzo s’ispira alchemicamente a tali inediti contenuti. Più precisamente concepisce, per l’occasione, una sorta di cuscino d’aria contenente dell’acqua e all’interno del quale è infilato un foglio di carta. Ogni bolla d’aria è giustapposta sopra una struttura in ferro collocata all’interno dello spazio che il medesimo disegno riproduce. L’opera vive lo stesso processo di trasformazione della natura nella quale è inserita. Ogni bolla d’acqua ha al suo interno un microclima specifico. Il foglio di carta bagnato dall’acqua ne modifica la forma, l’acqua evapora, mentre il polietilene si deteriora. Il disegno riproduce l’immagine reale dello spazio in cui è posto, come se fosse una cartolina, riproduzione fotografica usata di solito per mantenere vivo il ricordo di un luogo, di una città. Esiste, dunque, una stretta relazione tra l’immagine reale e quella disegnata, come tra lo spazio reale e la bustina che in parte lo contiene. L’immagine è racchiusa nello spazio della bustina, in essa il fuori diventa il dentro e viceversa. Da qui le possibilità delle relazioni infinite che potrebbero rivelarsi in un processo analogico non consunto né deteriorato.
Testo a cura di Saverio Simi de Burgis
ITALIA - DANIELA NOVELLO
Il lavoro che Daniela Novello presenta è un’installazione di taniche scolpite in pietra che, soprattutto per le loro dimensioni prossime a quelle reali, possono essere facilmente scambiate per autentiche.
Nel loro spiazzante allestimento in un pontile vicino all’approdo delle barche, le 4 taniche predisposte in banchina creano il primo effetto di una sorta di accumulo. Il fine è quello di ricreare un’ambigua intenzione: tramite l’energia simbolica espressa dalla tanica, da una parte traduce la sensazione di veicolare un'idea di scorta e riserva, dall'altra la volontà di indicare l’ennesima disordinata discarica con i suoi tipici ingombranti rifiuti urbani.
La tanica ha una forte valenza simbolica in quanto è contenitore di acqua o petrolio, due risorse fondamentali per l’attuale sopravvivenza umana: questo semplice oggetto ci riconduce, in tal senso, alle problematiche legate al tema, molto sentito, delle energie naturali.
Daniela Novello con un’analoga tanica realizzata in marmo si è aggiudicata il Premio San Fedele, riuscendo pienamente a imprimerle quel senso e valore simbolico che la stessa autrice voleva attribuirle.
Testo a cura di Saverio Simi de Burgis
ITALIA - MICHELE GUIDO
Nella sua ricerca si riscontra una particolare attenzione rivolta all’idea del giardino. Si tratta di un interesse focalizzato su tale soggetto al fine di riappropriarsi di una più idonea conoscenza della natura. Dall’idea del giardino che si rivela così fondamentale soprattutto nell’ambito del Romanticismo inglese consentendoci di entrare nel merito di categorie quali il sublime e il pittoresco essenziali per definire la poetica di quel periodo, ma utile pure per riconsiderare il variegato mondo della botanica e della sua tassonomia mirabilmente rilevata nel Settecento da Carl von Linnée. Analogo, anche se differentemente utilizzato, tale interesse maturava d’altronde in Wolfgang Goethe che, tra l’altro, nel suo celebre Viaggio in Italia, spesso citava le visite negli storici orti botanici italiani dei più svariati luoghi toccati durante il lungo soggiorno nella penisola, in cui sapientemente alternava località di grande bellezza naturalistica a città d’arte in cui aveva modo di conoscere gli interessanti siti archeologici assieme alle più notevoli collezioni d’arte. Michele Guido condivide una tale predisposizione e attitudine e per tale motivo risale indietro nel tempo per concentrarsi su alcuni esempi dei giardini arabi tipici in alcuni luoghi del sud ma diffusi anche, ad esempio, a Venezia seppur nascosti all’interno di alte mura che ne delimitano il perimetro, come avveniva negli antichi horti conclusi. Da qui la sua attenzione al rapporto tra le piante e le loro proprietà terapeutiche e officinali, rifacendosi ai preziosi erbari medievali, tipici, ad esempio, della scuola di Salerno, celebre per i suoi tacuina sanitatis, volendo quasi, in tal senso, ricostruire quel microcosmo ideale in cui arte e natura finalmente convivono in termini armonici, ricostruendo colori, profumi, suoni in una rappacificante e perciò terapeutica sinestesia percettiva, simbolicamente ora riassunta dall’emblematico fiore di loto.
Testo a cura di Saverio Simi de Burgis