CIPRO - PHANOS KYRIACOU
Improvvisamente emergente
Il modernismo, appropriazione discriminante delle condizioni di alterazione promossa dal prolungato periodo del moderno, si è imposto più attraverso la sua architettura che le sue rivoluzioni. In una cappella gotica del castello La Sarraz, alcuni chilometri a nord del lago di Ginevra in Svizzera, sotto gli auspici e, di fatto, su commissione diretta di Helène de Mandot, Sigfried Gideon e CharlesÉdouard Jeanneret-Gris, alias Le Corbusier, sostenuti da una ventina di altri, hanno canonizzato un manifesto e un’associazione che ancora dominano la nostra interpretazione della modernità. Fedele nondimeno alla modalità delle rivoluzioni, questo primo manifesto della CIAM enfaticamente dichiarava come scopo l’affermazione di “un’unità di punti di vista sulle concezioni fondamentali”, della sua disciplina, segnatamente l’architettura. Come nel caso di qualunque ortodossia purificante, il proclamato modernismo della CIAM ha stabilito le distanze dal suo passato, ma anche da se stesso, attivando in tal modo le fratture da cui un’altra tradizione doveva mobilitare le stesse condizioni storiche e materiali per la sua evoluzione. Contro la standardizzazione sistematica dell’edificio come oggetto, successivamente difeso come stile internazionale, si è diffusa una visione dell’ambiente costruttivo come “cornice delle azioni degli uomini, una sorta di promulgazione e celebrazione, un teatro che rende possibile l’azione”1 dando vita a numerosi modernismi locali. Contro la mimesi, la methexis.
Questa apertura trasformativa dell’architettura come atto critico, riflessivo, nel contesto delle sue specifiche relazioni di produzione, anziché esito tecnologico rigorosamente controllato, ha dato forma a gran parte dell’idioma locale del modernismo architettonico di Cipro. L’utilizzo di metodi e materiali vernacolari come il calcare giallo scuro poroso da parte di Polys Michaelides quale materiale portante nella sua progettazione dell’orfanotrofio di Nicosia (1934) di influenza Bauhaus e dell’ora demolito ospedale generale (1939) o successivamente quale rivestimento per facciate, come anche l’impiego di ciottoli da parte di Charilaos Dikaios e Neoptolemos Michaelides nelle loro strutture in calcestruzzo a metà degli anni Quaranta, gli ulteriori tentativi di incorporare mattoni negli edifici multipiano sono soltanto alcuni esempi di precoci reinterpretazioni di materiali e tecniche nell’ambito della tradizione modernista, anziché semplice adattamento stilistico. Tali interpretazioni oltre a creare un rapporto attivo, ma critico, con gli ideali del modernismo sono diventati, come qualunque interpretazione, strumento di diffusione, trasmissione di queste nuove condizioni per l’architettura, ininterrotte da complessità o fedeltà tecnologica e di altra natura.
Di conseguenza, progetti e materiali di nuova importazione come calcestruzzo, lamiera ondulata, alluminio e impianti igienico-sanitari domestici sono stati e ancora sono tutti indiscriminatamente utilizzati in massa, oltre la progettazione formalizzata. La città, gli edifici, il modernismo architettonico, vanno dunque ricercati ridistribuiti non sotto forma di riproposizioni di macrostrategie, bensì “in un processo continuo di trasformazione discontinua”.2
Tali ridistribuzioni discontinue della conoscenza e dell’informazione, cuore del progetto della modernità, si sono spesso perse tra ricostruzioni glorificate della favela-chic, resoconti idealizzati dell’ingenuità in un recente ritorno vendicativo del luogo e obbedienza resistente dello specialista che li definisce un surplus, inutile per la sua storiografia agiografica. Questa intricata trasformazione dell’esperienza urbana e architettonica rivela tuttavia il processo incompleto della modernità negoziandone i limiti formali per consentire a una pratica spaziale critica di emergere. La cultura spaziale critica denota un ingegno trasformativo più che descrittivo nei confronti delle varietà delle discipline e degli aspetti che operano diagonalmente rispetto3 alle occupazioni e alle concretizzazioni convenzionali dello spazio.4 Nella cultura spaziale critica è sempre stata latente una trasgressione resiliente, gli affari indisciplinati 5 dell’arte all’interno e all’esterno dei suoi confini superati.
Phanos Kyriacou, artista che sfrutta contemporaneamente le sensibilità e le pratiche di un cultore dell’ikebana e un cineasta punk, è uno dei principali creatori ciprioti di queste relazioni artistiche trasgressive. La pratica di Phanos Kyriacou è recuperata dai margini dell’artigianalità, della ricerca ossessiva e dell’impegno civile. Con il suo idiosincratico humour dedalico, è argutamente consapevole delle complessità dei materiali incorporati in luoghi e strutture. È questa attenzione che persiste nella sua variegata produzione e configura le sue reinterpretazioni del fattivo, dello storico. Da oggetti a poster, da dipinti a paesaggi, Kyriacou insidia la nostra percezione dello spazio, problematizzando la nozione di luogo, spesso attraverso il già problematico locale. Le sue indagini sulle regioni montane dimenticate, perse dell’isola (Wonder Chambers, 2007) si sono disperse nei suoi ritratti frammentati, pressoché illeggibili di sciamani e visionari, privi del loro status iconografico e delle caratteristiche devozionali della serie The Visionaries. Le sue esplorazioni fotografiche e spettacolari di scene e topografie (A majestic escape from a parasitic society, 2006-2007) diventano paesaggi inusitati, irreali di esili sculture che si ergono nella loro imponenza oltre il primato del reale, sottraendosi al significato geografico. Le sue propensioni per i retroscena della storia, come la sua ricorrente preoccupazione per Bruno Taut (si veda per esempio l’intricata opera Problem Solved, 2010 o Bruno Taut's mountain cave, 2009), oppure le stampe firmate con lo pseudonimo Midget Factory, rivelano le crepe della monumentalità e della rimembranza, sottolineate nella serie di opere My heroes e più evidenti, non da ultimo attraverso la loro massiccia materialità, nelle sue sculture più recenti, tra cui They had to climb a minor hill in order to enjoy a full view of their problem, 2010.
L’opera di Phanos Kyriacou gonfia lo spazio espandendo i nostri strumenti per coglierne i dettagli oltre i silenzi demolenti della storia e delle sue ortodossie monolitiche. Dai confini di un’arte disinibita e un’architettura indisciplinata, l’artista rigorosamente trascrive, re-interpreta, le scorribande anesatte 6 che continuamente schiudono le condizioni in-finite della possibilità dell’emergente in tutte le sue discontinue disparità con illustrazioni di prevedibilità programmatiche.
1 Colin St John Wilson, 2007, pag. 86.
2 Howard Caygill, 1998, pag. 121.
3 Sull’interdisciplinare e il diagonale, si veda Julia Kristeva, “Institutional interdisciplinarity in theory and practice: an interview” IN Alex Coles & Alexia Defert (Eds), 1998, The Anxiety of Interdisciplinarity, De-, Dis-, Ex-, Vol. 2, Black Dog Publishing, Londra.
4 See Rendell, 2006, pag. 3-12.
5 Sull’indisciplinato nell’interdisciplinare, si veda anche W.J.T. Mitchell “Interdisciplinarity and Visual Culture” IN Art Bulletin, 77/4 dicembre 1995.
6 “Husserl parla di una protogeometria che affronta il vago, in altre parole il vagabondo o nomade. Essenze morfologiche. Queste essenze sono distinte dalle cose concrete, nonché dall’essenza ideale, reale o imperiale. La protogeometria, la scienza che le analizza, è in sé vaga, nell’accezione etimologica di “vagabonda”: non è né inesatta come le cose concrete né esatta come le essenze ideali, bensì inesatta eppure rigorosa (“essenzialmente e non accidentalmente inesatta”). Il cerchio è un’essenza organica, ideale, fissa, ma la rotondità è un’essenza vaga e fluente, distinta sia dal cerchio sia dalle cose rotonde (un vaso, una ruota, il sole). Una figura teorematica è un’essenza fissa, ma le sue trasformazioni, distorsioni, ablazioni, i suoi accrescimenti, tutte sue variazioni, formano figure problematiche vaghe eppure rigorose, “lentiformi” “ombelliformi” o “dentellate”. Si potrebbe affermare che le essenze vaghe estraggono dalle cose una determinazione che va oltre l’essere oggetto, una determinazione che è quella della corporeità e forse implica anche uno spirito di corpo”. Deleuze & Guattari, A Thousand Plateaus, Athlone Press, 1999, pag. 367.
Per una trattazione dettagliata della geometria anesatta e delle sue implicazioni rispetto alla materialità nel campo spaziale, si veda Reiser & Unemoto, Atlas of Novel Tectonics, Princeton Architectural Press, 2006, pag. 144-149.
Testo a cura di Demetris Taliotis
CINA - YI ZHOU
Nel suo ultimo video di animazione 3-D The Greatness, l’artista multimediale Zhou Yi fa compiere allo spettatore un viaggio di andata e ritorno all’inferno. Sfruttando riferimenti visivi di sue opere precedenti ispirate a La Divina Commedia dantesca accompagnati da frammenti di colonne sonore e melodie inedite tratte dagli archivi del compositore italiano Ennio Morricone, la nuova opera atmosferica è al tempo stesso bella e inquietante.
“Volevo riprodurre una sequenza di sogni o incubi. La colonna sonora contribuisce anch’essa ad arricchire il messaggio, le sensazioni che intendo trasmettere… un viaggio di andata e ritorno dall’inferno; questa era la mia idea”, dice l’artista trentunenne.
The Greatness rientra nel continuo approfondimento di Zhou dei temi della morte e dell’aldilà, argomenti che i cinesi considerano tabù. L’artista ritiene che soltanto confrontandosi con l’ignoto è possibile superare la paura dell’inevitabile.
Zhou ha iniziato a creare una serie di sculture e installazioni video cinque anni fa partendo dalle sue interpretazioni del paradiso, del purgatorio e dell’inferno. Ciò che ha condotto l’artista verso il capolavoro dantesco risalente al XIV secolo, che descrive il viaggio di un uomo dall’inferno al paradiso, non è soltanto la scrittura poetica, bensì anche l’universalità dei suoi temi.
Zhou afferma di essere stata affascinata “dall’idea della morte, l’idea della paura e l’idea di come immaginiamo la nostra vita dopo la morte” perché sono terreno fertile per la sua fantasia.
Apories, del filosofo francese Jacques Derrida, testo che ha riletto lo scorso anno, ha riacceso il suo interesse, specialmente per la paura della morte: “Il testo descrive l’idea della morte e… quando pensiamo al momento del trapasso, l’idea del perché ne siamo spaventati.
Sembra essere un ostacolo. Aporia deriva dal greco aporia, passaggio impraticabile, strada senza uscita, qualcosa che non abbiamo mai affrontato, che dunque non conosciamo, e il fatto che sia un elemento ignoto… accresce la nostra paura perché nessuno potrà mai fornircene una descrizione compiuta.
Quando ho letto il libro mi ha dunque aiutata ad… avere meno paura dell’idea, che è più una costruzione umana dell’idea della morte. Se lo guardiamo in maniera diversa, lo interpretiamo come un confine tra due sfere, [la morte è il momento in cui] si valica questo confine”.
Testo a cura di Kevin Kwong
CINA, HONG KONG - AMY CHEUNG
"Come una persona senza volto, la ragione non può tollerare la rappresentazione della propria immagine allo specchio."
Slavok Zizek e John Mibank
Opera ispirata dalle famose sequenze di un film di azione di John Woo, la violenza eclatante, la violenza coreografata, la violenza giustificata, la violenza finalizzata… La violenza per mano di un protagonista moralmente incorruttibile dovrebbe essere giustificata come violenza buona? L’integrità morale può svolgere un ruolo nella distruzione costruttiva? Come si può distinguere la violenza buona da quella cattiva? Perderemo di vista il corretto uso strumentale della distinzione in funzione della nostra istruzione e del nostro orientamento ideologico? Non appena sosteniamo di sviluppare criteri per definire una violenza presumibilmente buona, per ciascuno di noi sarà più semplice trovare scuse e motivazioni giustificatrici per convalidare i propri atti di violenza? Sfrutterò pertanto questa opportunità per raccogliere e rivelare i discorsi climatici della violenza buona e cattiva perpetrata consapevolmente dal pubblico attraverso la documentazione della maschera facciale scelta dal pubblico e un breve commento.
Testo a cura dell’Artista
ARGENTINA - NORA INIESTA
L’opera di Nora Iniesta sfugge a qualsiasi definizione. La diversità delle tecniche che l’artista domina le consente di sfruttare elementi della quotidianità creando, attraverso il loro abbinamento, un nuovo significato degli oggetti di cui si serve.
Un ombrello ci suggerisce sempre il bisogno di protezione. A Venezia ricorda la sua spiaggia, il suo Lido, la sua calura. Per gli appassionati di cinema evoca Luchino Visconti e il suo indimenticabile Morte a Venezia, con Silvana Mangano che elegantemente domina l’ombrello e il noto festival che ogni anno riunisce il meglio del cinema internazionale.
Quanto all’uso dei nastri che ripropongono i colori dell’emblema nazionale del nostro paese, conferiscono uno speciale valore simbolico e trasformano l’oggetto in un segno di unione tra le culture delle due nazioni.
La cultura argentina si nutre degli elementi originali e di quelli apportati dalle immigrazioni da diversi luoghi del mondo. L’Italia è stata uno dei luoghi più importanti in termini numerici e di influenza. L’Argentina era multiculturale quando il mondo non lo era ancora e le tracce lasciate dall’Italia nelle sue espressioni sono chiare e tangibili.
Questo ombrello costituito da nastri che riproducono i colori dell’Argentina ci parla dell’unione tra le due culture e della protezione che ci offre nel dialogo continuo che esiste tra i due paesi. Nondimeno, come l’intera opera di Nora Iniesta, la riaffermazione delle immagini e degli oggetti con cui si nutre sfida lo spettatore a contemplare con il suo sguardo il senso esplicito della sua composizione. L’artista recupera inoltre l’idea di arte come gioco ingenuo e per questo propone una partecipazione attiva, in maniera che l’incontro con un elemento di uso quotidiano, espressamente tratto dalla realtà, possa assumere il senso da lei proposto e completato dagli spettatori. Autentica rappresentante dell’arte contemporanea, l’artista sfrutta la sua libertà creativa utilizzando varie tecniche e la desacralizzazionedegli oggetti impiegati.
Come afferma Jacques Derrida, Nora Iniesta è sempre alla ricerca di un’identità mai attribuita o scontata perché scorre sempre nel processo infinito, l’indefinibile spettro dell’identità.
Testo a cura di Josè Miguel Onaindia