Finnish Academy of Fine Arts
Kemal Can, Mika Helin & Matti Koskinen, Riitta Kopra, Oskari Tolonen
Sulla forma e con la forma
Qualunque forma sia stata forzata a diventare attiva, forte, fluente nella sua persistenza deve comunque dare un riscontro, come le è stato chiesto. Ciò non forza le nostre richieste, ma ne agita la superficie, il che sembra riflettersi sulla forma in questione.
Che cos’è questo interesse che dimora così piacevolmente sulla superficie delle cose? È la natura degli scherzi, la leggerezza dei sensi, del tempo trascorso spensieratamente. Un solido appiglio dà speranza o rassicura in merito alla forza. La forza è debole rispetto a qualunque leggerezza. La forza impone una rivelazione.
Chiedere qualcosa implica una certa conoscenza e un approfondimento. Poiché la conoscenza è costruita sulla base dell’esperienza, è una forma di ricerca che guida ogni sorta di interrogativo. Se la ricerca dà garanzie, è legittimo sostenerla. La superficialità delle richieste, la sete dettata dall’interesse è ammantata di piacere, forme complete del tutto fugaci.
Tuttavia non si è trattato soltanto di qualcosa che è parso riflettersi sulla forma in questione?
Poco importa. Se per le richieste tutto si riduce a un’agitazione superficiale, la fluidità o il beneficio della forza è rinvenibile nel tempo e la persistenza nell’intenzione. Non esistono demarcazioni precise e tutte le forme hanno dispersioni, siano esse totali o parziali.
Testo a cura di
Oskari Tolonen
Svizzera - Shendra Stucki
La realtà descritta attraverso l’immagine della città
La maggior parte delle mie installazioni, da quattro anni a questa parte, nascono da una mia idea fissa: quella di rappresentare La città.
Inizialmente tutto è partito dallo scopo, spesso comune in molti artisti, di rappresentare la realtà, quella più quotidiana, quella che ci si sente addosso, quella che rappresenta di più il presente e l’essere umano che ci vive. Mi sono così interessata ai giornali, effettuando una tesi su come questo tipo di realtà fosse intangibile a livello mondiale e che quindi potesse esistere in quanto concetto di realtà solo sotto forma soggettiva. Ho lavorato su questo concetto, o meglio sul come invece nel mondo la realtà venisse resa nota sotto forma globale senza considerare il fatto che ogni soggetto la elabora secondo la propria testa.
Le prime installazioni per rappresentare questo concetto usavano la chiave dell’ironia ed erano una sorta di invenzione di false notizie di catastrofi, rappresentate con dei video costruiti su modelli di carta di città. Era quindi una sorta di beffa per comunicare quanto sia assurdo il nostro attaccamento alla realtà dal momento che non ci è propria.
Sempre stando sull’immagine della città che prendeva importanza per me, ho iniziato ad usare l’illusione nelle mie installazioni video. In questo caso la proiezione interveniva su uno schermo 3D creando l’effetto che le azioni del video succedevano direttamente sullo schermo costruito sotto forma di modello di città.
La città è così diventata per me il soggetto ideale per rappresentare la realtà dell’uomo contemporaneo. Poiché a mio avviso è l’ambientazione idonea dove tutte le azioni dell’essere umano di questi tempi si possono riassumere, ed è l’apice della sua evoluzione.
Con l’installazione dell’albero ho voluto racchiudere tutti questi concetti in una forma che si dissocia completamente dall’immagine di città ma che contiene concetti comuni. L’albero rappresenta un sistema di reti e connessioni perfetto che crea la vita prendendo energia dal basso per dare il suo vero aspetto all’alto. Ciò avviene anche nelle città poiché tutto ciò che non vediamo è parte fondamentale per il funzionamento di tutto ciò che ci appare in realtà.
L’albero è un insieme di natura e artificio come la vita umana lo è tra i palazzi. L’albero ha un aspetto morente ma i colori smentiscono la cosa e l’illusione del suo reale funzionamento pure. Una città è sempre viva seppur non dimostri direttamente di esserlo.
Testo a cura
dell’artista
Romania - Martin-Emilian Balint
Anziché scolpire la pietra o modellare il bronzo, Martin-Emilian Balint, fotografo, scultore e videomaker, modella le emozioni del visitatore. Le sue installazioni, spesso realizzate in carta e basate sulla ripetizione di una moltitudine di elementi uguali, sono divenute in tempi recenti sempre più vaste e spettacolari, e orientate a creare un mood di incanto e di festa singolare nel panorama dell’arte contemporanea.
Ancora studente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, Balint si è rivelato al pubblico partecipando ad Atelier Aperti, evento collaterale della Biennale Arte 2005, con un’installazione composta di circa tremila uccellini origami di carta bianca. Il 2008 è l’anno di Anti-Lulling Field, campo di 1.300 papaveri in plastica presentato alla mostra CREAM On Madness all’Isola di San Servolo, nell’ambito di OPEN 11. Del 2009 sono invece i 300 asteroidi in carta rossa dell’opera Sun Being alla Fornace di Asolo, il cui obiettivo era far sentire il visitatore come un astro, al centro di un sistema solare che ruota intorno a lui, governato da un’armonia matematica.
Sweet Suite del 2011, composta da 15.000 uccellini di carta dorata, ha costituito il fulcro della mostra Bride nella fortezza medievale di Larnaca a Cipro.
Sempre nel 2011, per la Biblioteca e Galleria d’Arte Contemporanea della città di Preganziol presso Treviso, Balint ha realizzato l’installazione Abbracci, 17.000 figurette grandi e piccole (corrispondenti al numero di abitanti della città) rappresentate nel gesto universale che esprime affetto e accoglienza.
I visitatori potevano ritirare all’ingresso una o più figurine e collocarle con le proprie mani nel corteo che si snodava nelle sale, oppure portarle a casa, donarle o spedirle a conoscenti e amici, in modo che la festa potesse continuare e diffondersi oltre la serata inaugurale.
Una delegazione di Abbracci, collocata in un contenitore appositamente realizzato, fa lievitare questo momento di festa, estendendo ai visitatori di OPEN 14 l’esperienza di questa incantevole installazione.
Testo a cura di
Gloria Vallese
Italia - Filippo Zuriato
La smorfia di un bambino è anzitutto un problema di verosimiglianza: dell’osservare e del “fare” (la creta rievoca l’ancestrale plasmare), del piegare la materia alla rappresentazione mimetica. Così l’intrico dei capelli, la texture dei vestiti, le pieghe del volto, sono impressi nella terracotta e assecondati dal colore acrilico che riveste la superficie (in altri, rari casi, si aggiungono materiali diversi per la resa di particolari effetti). Affrancati da questioni estetiche, i modelli scelti e raffigurati da Zuriato appartengono al presente e al vissuto: un cinese che beve da una bottiglia, un uomo che sputa, una vecchia insegnante; catturati e trasportati in una dimensione separata, l’intero e il frammento, l’umano e il mutante si mescolano a formare una collezione di caratteri, posta a parallelo del mondo reale di cui rispetta tutte le misure e le proporzioni. Preceduto da un acerbo “Adolescente”, il soggetto che qui viene presentato (opera ideata per OPEN 14) riporta ad una gestualità infantile, familiare seppure impropria: il bambino dagli occhi a mandorla che finge, in chiave tautologica, di essere ciò che è, solleva una contraddizione, una condizione di impossibilità legata al mancato riconoscimento della propria origine. Mostrando di aver acquisito modi e abitudini occidentali, il piccolo orientale sul piedistallo suggerisce un attuale quanto fragile monumento all’integrazione e forse, d’altro lato, alla perdita d’identità.
Testo cura di
Elisa Prete
Italy - Marilena Vita
Quando la foto ha senso, c’è ragione di farla. E prende. Che se poi il coinvolgimento riguarda nello stesso tempo la sfera emotiva (ti rapisce), estetica (una bellezza che di primo acchito non vuole commenti ma il godimento puro), intellettiva (ti intriga sul piano espressivo e del messaggio e vuoi capire la composizione e la tecnica), allora è un’opera assolutamente speciale. Di ricerca? Inevitabilmente. Ma lo sperimentare, in questo caso, non è sperimentalismo. Non si tratta di ipotesi ma di tesi, cioè di un’idea ben maturata. Senza remore: una tale responsabilità operativa e creativa non è ricorrente. In Legs un caso efficace. E ci vogliono delle avvertenze. Non ricetta, ma coscienza della problematica del nostro tempo. (Il faut être de son temps, diceva Manet). Concettuali fondamentalisti? No. Aniconici inflessibili? No. Intimisti autoreferenziali? No. Capito (e sentito) questo, vai dove ti porta il cuore amante della mente. La bellezza, la tua, ce l’hai dentro, ed è quella che è e che gli altri confermeranno. Con questi caratteri espressivi e comportamentali topici, Vita esibisce la sua filosofi a della vita e dell’arte, dote necessaria per navigare responsabilmente nel nostro tempo. Ella afferma e nega (contraddice). La “tesi” delle gambe allungate in primo piano è quasi anamorficamente alterata dalla distorsione prospettica con la quale esse sono riproposte riflesse nello specchio. Si stabilisce un rapporto empatico tra i piani della rappresentazione e le “icone” o forme che in essi insistono. Gambe come solitarie staccate dal resto del corpo sostituito, per illusione ottica, dalla riproposta delle stesse. Non è surrealtà, né tanto meno surrealismo. Lo afferma il capo d’abbigliamento nero delimitante le due parti (una grande, l’altra, riflessa, rimpicciolita) di incarnato che collude esteticamente col verde esteso del prato. Lo smalto scuro delle unghie dei piedi in primo piano e l’omologo riflesso costituiscono gli estremi cromatici esaltati dalla massa di nero, elemento linguistico di grande importanza. Ma questa analisi è quasi sconfessata dal sapore e dall’atmosfera di estrema semplicità e naturalezza.
Testo a cura di
Carmelo Strano