Spagna
Angel Orensanz
LA FELICE INSTABILITà DELL’ARTE
L’instabilità è il vero valore dell’arte contemporanea. Per questo è necessario praticare a partire da un livello di astrazione concettuale che non garantisce la materia. Attraverso la proiezione nella forma, l’arte vive una condizione di sana impalpabilità fatta di rinvio ed intervallo, intercorrenti fra ideazione ed esecuzione. Ma l’opera di Orensanz non lascia mai intravedere il punto di partenza e quello di arrivo.
Non privilegia il concetto rispetto all’oggetto. Essa è il frutto di un intreccio che cataloga dentro di sé la memoria della cultura e quella della natura. La prima corrisponde alla consapevolezza dell’identità metalinguistica dell’arte e la seconda a quella dell’ineluttabile pratica manuale che mette in esercizio il corpo verso esiti imprevedibili e lampanti. La forma diventa il luogo dell’evidenza finale. Dove lo sguardo trova la propria sosta e può constatare se l’artista è riuscito a superare la grande prova, quella della fondazione della bellezza. La bellezza moderna dell’opera di Orensanz sta nell’evidenziamento di un concetto di costante nostalgia presente nella forma mai superbamente definitiva ed ostentata. La nostalgia è il frutto di una coscienza, in questo veramente moderna, dell’impossibilità della forma chiusa e speculare di un ordine eterno. La vita vive un livello di strutturale discontinuità che arricchisce l’uomo seppure nei modi di una ineliminabile precarietà. Tale nostalgia costituisce il segno di una doppia declinazione dell’opera di Orensanz. Da una parte la tensione continua verso la perfezione. Un movimento quasi teleologico verso una finalità impossibile. Dall’altra l’accentuazione laica del risultato. Questa doppiezza costituisce il percorso labirintico della fatica creativa del grande artista spagnolo, che trova nella vertigine della continua prova l’accento erotico dell’opera, figurativa o astratta, materica o disegnata, pittorica o scultorea. Perché si realizzi questo continuo movimento, è necessario avere dell’arte una visione storicamente superficialista. La superficie è il campo di proiezione del mondo delle idee. Lo schermo gigante su cui realizzare le tracce di una creazione sanamente imperfetta, ad immagine e somiglianza di un’altra superiore con cui misurarsi attraverso la continua riprova. La superficie del quadro diventa la parete di vetro trasparente su cui depositare i segni di una laboriosità vitale e pensosa insieme che cerca di realizzare microcosmi di una infinita iconografia mai interamente esponibile. Questo segnala l’attualità di Orensanz che con la sua vibrante lucidità ha anticipato alcune consapevolezze, anche quelle della transavanguardia, circa l’interna natura dell’arte. Egli ha sospettato la certezza della cornice, il recinto invalicabile del linguaggio dentro cui avviene il processo creativo nei suoi movimenti di assestamento formale. Non a caso non esiste profondità nell’opera di Orensanz. Tale dinamica è possibile proprio a partire dalla scorrevolezza delle superfici fatte di limpida bidimensionalità su cui transitano segno e colore senza luoghi di addensamento o di profondità accomodanti dove trovare rifugio e riparo. Dalla superficie si parte e ad essa si arriva per poi ripartire. La struttura labirintica dell’iconografia di Orensanz è chiaramente dimostrata dall’intreccio stilistico tra astratto e figurativo. Mai la linea si insterilisce nella forma definitiva della geometria e nello stesso tempo mai la gestualità si accontenta di una pura affermazione edonistica del segno. Sempre l’artista cerca e trova un momento di sosta dinamica, fatta di relazione e punti fermi, come in un campo organico per l’immagine. Predomina l’idea di campo, una nozione di spazio mai statico ma relazionale, una costellazione di punti di fuga in un sistema dominato dal senso della concentrazione e della leggerezza. Tutto contenuto in un’ulteriore idea, quella della cornice che trattiene l’arte entro il perimetro della memoria del passato e l’attenzione del presente. La cornice diventa come un espediente di animazione del linguaggio, la teca di vetro trasparente che lascia intravedere le interne dinamiche e gli esiti del linguaggio approdato ad una sosta formale. In tal modo l’opera diventa l’inquadratura dentro cui avviene la rappresentazione, dove si coniugano inaspettate interferenze linguistiche, imprevedibili rispetto ai codici organizzati della comunicazione corrente ed attesi o propiziati dall’esercizio creativo dell’artista. In questo doppio gioco Orensanz.
Testo a cura di Achille Bonito Oliva