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GEORGIA - ETERI CHKADUA

Madonna, collezionista di autoritratti di Frida Kahlo, una volta ha confessato che un dipinto di Kahlo nel suo foyer, in cui l’artista partorisce se stessa, era in realtà la sua cartina tornasole: se i visitatori non apprezzavano il quadro, Madonna, tra il serio e il faceto, replicava che non avrebbero mai potuto essere veramente suoi amici. L’osservazione più ovvia in merito all’opera di Eteri Chkadua è che rappresenta la naturale successione di Frida Kahlo. O la naturale successione di Madonna. O entrambe. A ogni modo, Eteri non ha nulla da invidiare né a Frida né a Madonna in termini di arte dello strip-tease psicologico, ossia l’arte di rivelarsi attraverso la cornice della propria arte: dipinti come palcoscenico e proscenio in cui l’artista rivela se stessa a se stessa e, di conseguenza, a noi. Ciò che sorprende immediatamente nei quadri di Eteri è la sua straordinaria maestria tecnica, maturata presso l’Accademia di Belle Arti georgiana ancora sotto l’occupazione sovietica, quando Eteri studiava, che le ha impartito un’educazione rigorosamente formale, apparentemente ritenuta superflua nella formazione artistica da molte scuole d’arte occidentali. Nondimeno da questo contesto severamente formale, Eteri, come i più abili truffatori di strada, ha sequestrato la sua formazione classica asservendo l’antica perizia dei maestri fiamminghi ai capricci della sua esplorazione sfacciatamente personale. Con la mano ferma di un macellaio, Eteri rivolta la sua psiche eccezionalmente indomita e assolutamente moderna esponendo le sue interiora con quell’oggettività e attrattiva con la quale si esporrebbero salumi da Harrods. I quadri di Eteri sono una sintesi viscerale dei paradossi psichici dell’essere donna moderna sfrontata. Sono un brioso rifiuto di qualunque paesaggio sociopolitico le cui mitologie disapprovano dimostrazioni esuberanti di chiassosa arguzia, stile colorito e impudente saggezza sessuale. “Perché gli americani si fanno di questi problemi?”, mi ha chiesto retoricamente una volta. “Oh! i miei genitori me le hanno date, buh. E allora!?!”, ha esclamato in tono beffardamente oltraggiato. “Tutti le abbiamo prese.” Inutile dire che ha ragione, ma sebbene questa possa sembrare una posizione scandalosamente insensibile da una prospettiva occidentale ammorbidita da Oprah, l’atteggiamento di Eteri cela in realtà un grande segreto: l’opera di Eteri ci dice che non sfuggiamo al passato smettendo di piangerci sopra, bensì lo trascendiamo vivendo la vita nella maniera più esuberante possibile ed esprimendoci attraverso un atteggiamento di gaia sfida nei confronti di tutti gli ostacoli frapposti e le obiezioni mosse da famiglia, stato o religione. Il mio quadro preferito è il demone blu (che è al tempo stesso Eteri e non Eteri, per cui è chiunque si sia sentito in questo modo), in cui l’artista scompiglia vari preziosi artefatti di origine georgiana. È un quadro di terrore personale, quella paura solitaria, empia del criminale noto, l’artista che sa di violare e tradire i preziosi modelli della sua cultura nel momento in cui dipinge. Eppure continua a dipingere, alla sua maniera robusta, indistruttibile. Ciò che mi commuove è l’instancabile dedizione di Eteri nell’esprimere verità su se stessa, poco importa quanto spaventose o alienanti siano. La sua eroina non è forse convenzionalmente bella, ma è assolutamente splendida, come una commedia di Tennessee Williams, nella poesia dei suoi sentimenti impuri, sentimenti che si traducono in un permesso per lo spettatore, quello stesso permesso espansivo, che Eteri si è concessa, di essere amante e combattente, trionfante e miserabile, sexy e disperata, istericamente sciocca e… inequivocabilmente geniale. 

Testo a cura di Cintra Wilson