Intervista a Paolo De Grandis

20 anni di arte: idee pionieristiche che sono diventate realtà

 

Venezianews | Novembre 2015

 

Vent’anni oltre la siepe. Arte Communications, prima scintilla della Biennale in città.

Incontro con Paolo De Grandis

di Massimo Bran

La Biennale Arte ha registrato in questi ultimi vent’anni una crescita esponenziale dei suoi numeri, dei suoi protagonisti, delle sue mostre. Oggi ci sembra normale girare per la città e vederla felicemente (quasi sempre) invasa da piccole e grandi mostre distribuite tra meravigliosi palazzi, gallerie, case private, musei, la maggior parte ‘griffate’ Biennale. Eppure c’è stato un tempo, fino a pochissimi anni fa, in cui la Biennale era davvero un affare per pochi, per una ristretta élite, conclusa in spazi dati e circoscritti. Finché un giorno qualcuno osò e niente fu come prima, già. Paolo De Grandis ha il merito, con la sua Arte Communications, di aver avuto una ventina d’anni fa questa grande intuizione di portare la Biennale oltre i suoi steccati. In questo mese di finissage della 56. Biennale Arte firmata Enwezor ci è venuta la curiosità di andare a esplorare le radici prime di questo format contemporaneo della grande Esposizione veneziana, cercando anche di indagare da dove è venuta quell’intuizione, da quale urgenza, da quali passioni.

Quando e come l’arte contemporanea è entrata nella tua vita?

L’arte contemporanea è entrata nella mia vita grazie al salto di un muretto. Ero un ragazzino, avrò avuto 15 o 16 anni, quando vidi una scritta su un muro: “Biennale di Venezia”. Quando entrai alla Mostra fui subito travolto da un tourbillon di immagini, sensazioni, palazzi su cui campeggiavano i nomi delle diverse nazioni partecipanti. Ero confuso, ma affascinato. Mi intrufolai nel Padiglione Italia, dove incontrai un signore con i capelli lunghi intento a dipingere di nero e bianco le pareti degli ambienti. Mi sono seduto e l’ho osservato. Mi disse di avvicinarmi a lui e mi diede un pennello in mano. «Bianco o nero?», mi chiese. «Nero», risposi io. Cominciai a dipingere le pareti assieme a lui. Non capivo esattamente quello che stavo facendo e perché lo stavo facendo, ma la cosa mi piaceva molto. Era una cosa che andava oltre le mie possibilità di comprensione, ma che mi piaceva fare. Ho pensato che la mia vita dovesse svilupparsi attorno a quella meravigliosa sensazione. Ah, dimenticavo, quell’uomo con i capelli lunghi avrei saputo solo dopo che rispondeva al nome di Michelangelo Pistoletto…

Quest’anno Arte Communications compie vent’anni. Quali le tappe-chiave che hanno dato il là a questo lungo viaggio?

La Biennale è arrivata dopo tanti anni di attività. È stata il carburatore della mia passione, che all’epoca si sviluppava verso tre direzioni principali: l’arte, i viaggi, le donne. Come tutti i sognatori il mio desiderio è sempre stato quello di andarmene, di partire verso orizzonti lontani. Sono stato a studiare negli Stati Uniti, dove ho incontrato persone che hanno creduto in me, a partire da alcuni componenti della famiglia Kennedy, e da lì ho cominciato un percorso che poi sarebbe sfociato in esperienze come OPEN e la collaborazione con la Biennale, sempre deciso a portare l’arte alla gente, aspetto che mi spinge ancora oggi a fare questo lavoro. Ho sempre letto d’arte, ci sono ‘caduto dentro’ da piccolo proprio come accadde ad Obelix con la pozione magica. Sono convinto che l’arte abbia effetti benefici sulla vita delle persone, a patto che venga diffusa, fatta conoscere a tutti, non tenuta per sé o per cerchie ristrette di privilegiati. Palazzi, mostre e fondazioni hanno ovviamente motivo di esistere, a patto che non perdano questa vocazione, quella appunto di far apprezzare la cultura al più ampio pubblico possibile. Il mio sogno fin da giovane è sempre stato questo: portare a tutti il massimo livello d’arte disponibile. Per fare questo, ovviamente, erano necessari i soldi. Ho avuto la fortuna, durante il mio soggiorno in America, di conoscere persone dalle grandi disponibilità economiche a cui ho potuto sottoporre il mio primo progetto, Quartetto: si trattava di coinvolgere i tre maggiori critici d’arte del momento che avrebbero selezionato i quattro maggiori artisti dell’epoca invitandoli a realizzare alcune tra le opere più importanti della propria carriera. I critici coinvolti furono Achille Bonito Oliva, Kaspar König e Alanna Heiss, quest’ultima fondatrice del PS1, Museo d’Arte Contemporanea di New York. Gli artisti erano Joseph Beuys, Enzo Cucchi, Bruce Nauman e Luciano Fabro. La Scuola Grande di San Giovanni Evangelista lo spazio scelto per accoglierli. Era il 1984 e fu la prima mostra organizzata in quello spazio, per molti aspetti considerata di fatto il primo Evento Collaterale alla Biennale. Ricordo ancora l’inaugurazione a Palazzo Dario, alla presenza di Basquiat e altri protagonisti della scena artistica dell’epoca. L’idea della mostra collaterale si lega ad un altro aspetto sul quale ho sempre concentrato il mio pensiero, la mia attenzione. Mi chiedevo: se esiste un evento che coinvolge tutto il mondo, perché non arricchirlo di altre iniziative? Perché sprecare una cassa di risonanza tanto potente? Forse all’epoca non avevo ancora la piena consapevolezza di quanto questo meccanismo potesse essere adatto al mio scopo, ma sentivo di portare avanti quello a cui tenevo di più: portare l’arte alla gente, diffonderne i molteplici messaggi. Nel 1988 realizzai Birds in Spirit, altra collaterale ‘di fatto’ all’insaputa della Biennale, mostra con lavori di Marcia Grostein e Hunt Slonem al Chiostro di Sant’Apollonia. Sempre nella stessa epoca progetti simili si muovevano, penso in primis a Minimalia del mio padre spirituale Gino Di Maggio, esposizione che cavalcava lo spirito della Biennale per proporre altro. Sempre negli anni ‘80, quando negli Stati Uniti imperava la Pop Art e tutto quanto era lucido e splendente, convinsi Germano Celant a portare l’Arte Povera al PS1, con un impatto davvero fortissimo sulla scena artistica di quegli anni. Il rapporto con la Biennale si è rinsaldato anno dopo anno, quindi, fino alla scintilla finale-iniziale, quando venni contattato da Taiwan attraverso una giovane curatrice che frequento ancora oggi e con cui ho collaborato anche in occasione dell’ultimo OPEN. Assieme a lei ho potuto affrontare l’altro aspetto al quale tengo tantissimo, cioè la possibilità di spiegare l’arte ai bambini. Grandi artisti sono stati invitati da lei per iniziative di questo tipo. Tornando al punto, fu lei a contattarmi nel 1993 per realizzare una grande mostra sugli artisti di Taiwan nel contesto della Biennale di Venezia. Da frequentatore assiduo dei Giardini ne conoscevo a perfezione gli spazi e sapevo della disponibilità di un’area verde in cui poter costruire un nuovo Padiglione. Colsi la palla al balzo e proposi Taiwan. L’allora direttore Gian Luigi Rondi era d’accordo, il terreno sarebbe stato ceduto gratuitamente, mentre Taiwan si sarebbe occupata della realizzazione del fabbricato. Intervenne però la Cina, che pur non partecipando alla kermesse contemporanea usò tutte le sue armi diplomatiche per impedire che ciò si realizzasse. Fu allora che pensai ad uno spazio esterno alla Biennale, più precisamente al Palazzo delle Prigioni, un posto inedito, dove da poco aveva realizzato una mostra Andy Warhol. Dopo aver ottenuto la disponibilità di Cacciari, prospettai l’ipotesi a Taiwan di esporre a Piazza San Marco, registrando ovviamente il loro convinto entusiasmo. Parlai con Rondi e misi a punto la cosa, che andò molto bene e mi permise di seminare i germogli di un rapporto con l’Oriente molto proficuo, a stretto contatto con i più importanti musei di tutti quei paesi. Quello che ho realizzato in quel lontano 1993 ha rappresentato, detto senza falsa modestia, davvero una rivoluzione, per la Biennale e non solo. Prima si trattava di un’istituzione chiusa nel proprio limbo, dopo si è configurata come evento aggregante, aperto a tutti, capace ovviamente di generare un indotto importantissimo per la città intera. Alla base di tutto c’è una mia ‘malattia’, l’essere quasi ossessivamente proiettato verso il futuro, il pensare sempre a quello che farò domani, alla prossima iniziativa in cui mi tufferò. Nel 1995 ho creato OPEN, non contento dello spazio di cui godevo ogni due anni. Nel 1998 associai l’evento alla Biennale Cinema, di cui non si poteva sprecare la straordinaria visibilità mediatica e il grande potere aggregante, che non necessariamente doveva essere limitato all’ambito cinematografico. In questi anni ho potuto registrare un maggiore coinvolgimento della gente, per certi aspetti magari meno selettiva rispetto al passato. Una volta la Biennale era sinonimo di Giardini e Corderie, ora è un fenomeno globale da cui derivano ovviamente anche nuove e diverse responsabilità, riflesso di un’arte che è diventata aspetto quotidiano del nostro vivere. Le polemiche di questi giorni vedono l’arte al centro dell’attenzione cittadina e nazionale, basti pensare alla mostra di Berengo Gardin sulle grandi navi o alla paventata possibilità di dover vendere opere di Klimt per esigenze di bilancio.

Quali le collaborazioni più significative sviluppate in questa Biennale?

La collaborazione con l’Azerbaijan sta andando molto bene, si tratta di mostre molto ‘forti’ che ci stanno dando delle grandi soddisfazioni. Quella con Andorra sta portando in Italia artisti davvero incredibili, mentre il mio rapporto con i paesi asiatici è ormai trentennale e prosegue saldo. In queste realtà l’arte è rispettata, amata, vissuta anche sotto il profilo produttivo e supportata dai governi, aspetto che in Italia dev’essere di sicuro migliorato. Esiste un enorme mercato interno in questi Paesi, in particolare in Cina naturalmente, con realtà che non vendono il proprio patrimonio, ma al contrario lo incrementano con nuove acquisizioni. È un peccato che non acquistino opere europee, cosa che si spiega con le quotazioni troppo alte di queste stesse opere che per loro non si dimostrano convenienti.

La scommessa vinta di OPEN. Quali gli elementi determinanti del successo di questa esposizione?

OPEN quest’anno ha compiuto diciott’anni e portato in Italia circa 700 artisti, tra cui Keith Haring, Vedova, Yoko Ono, Pistoletto... l’elenco di grandi sarebbe quasi infinito. È una creatura che mi segue, la mia ombra artistica. È una cosa che non voglio mollare a costo di soffrire, che può avere avuto degli alti e dei bassi ma che resiste. Quest’anno ha visto nascere da un diniego una grande possibilità, quella di poter esporre al Molino Stucky, sede che ha fatto la storia di Venezia sotto tanti punti di vista. Stucky fu infatti il primo commissario della Biennale di Venezia; per qualche magico gioco del destino è stato quindi come tornare alla radice della Biennale stessa chiudendo per certi versi un cerchio.

Quali i progetti che vi vedono coinvolti nel prossimo futuro?

Voglio portare le mostre realizzate durante la Biennale in vari musei, in un meccanismo che potremmo definire “après la Biennale”. È un peccato che, a fronte di grandi sforzi economici, questi paesi vedano le proprie opere esposte solo a Venezia, con tutti gli spazi espositivi di cui disponiamo in Italia. È un progetto al quale sto lavorando, spero di avere riscontri già nei prossimi mesi. Ad animare la mia azione è l’odio verso lo spreco: non organizzare mostre collaterali alla Biennale sarebbe uno spreco, non diffondere l’arte è un intollerabile, imperdonabile spreco.

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