Italia
Marco Lodola

Se dovessi indicare la prima cosa positiva pensando a Marco Lodola, direi che non si tratta di un artista "nuovo", o almeno totalmente nuovo. Non ritengo affatto che il nuovo sia un valore positivo in arte. Lo è sicuramente per il mercato, il vero, grande dominatore dell'arte contemporanea, secondo una legge del marketing moderno che è valida per i dipinti come per le automobili: bisogna offrire prodotti sempre rinnovati per stimolare le vendite, promuoverli come tali, creare bisogni indotti negli acquirenti. Quando i mercati e i loro fedeli alleati (i critici, i collezionisti) hanno scoperto, intorno alla metà del secolo scorso, che l'Avanguardia si accorda perfettamente al principio della merce nuova, l'arte è diventata moda.
Una metamorfosi che ha quasi capovolto il senso stesso dell'arte così come era stato inteso fino all'Ottocento, quando si creava non per fare qualcosa di nuovo, ma di eterno. Assurdamente, il culto del nuovo artistico ha finito per trasformare il passato quasi in un nemico da combattere; solo di recente, quando ci si è accorti che anche il passato poteva essere a vantaggio di un nuovo sempre più richiesto, è tornato a essere preso in considerazione. Ci ritroviamo cosi a guardare tanta arte contemporanea degli anni precedenti.
Con Lodola certi pericoli dovrebbero essere scongiurati, proprio per il suo essere "non nuovo". Dietro le sue sagome di plexiglas, dietro le sue luci al neon, dietro le sue campiture cromatiche, c'è una precisa storia dell'arte che è stata conosciuta, meditata criticamente, rielaborata: il Futurismo, il colorismo ritmico della Delaunay, la Pop Art, per dire solo di ciò che sembrerebbe più evidente. Un certo modo di ridurre la figura a sagoma, contorno, minimo denominatore grafico, era stato tipico del modo con cui la Pop Art ha sviluppato gli spunti provenienti dalla figurazione pubblicitaria (si pensi, più ancora che a Warhol e a Lichtenstein, ad Allen Jones. Tom Wesselmann, James Rosenquist). Il neon aveva avuto in ambiti per la verità distanti da Lodola, il minimalismo di Dan Flavin e il concettualismo di Mario Merz, il suo impiego artistico più rilevante. Ma in fondo, a ben vedere, anche Lodola possiede una sua cifra non certo concettuale, ma almeno minimalista, un minimalismo della figura che è comunque esente dagli intellettualismi o dagli slanci mistici di Flavin e compagni. In quanto al colore, alla sua organizzazione in stesure distinte, planari e uniformi, vivacissime, il riferimento immediato è al Futurismo non tanto dei maestri fondatori, quanto di chi con il linguaggio dei maestri è diventato il grande compositore nei mobili, nei tessuti, in tutto ciò che poteva essere decorazione: Fortunato Depero; un aggancio, quello con Depero, capace di associare Lodola a un altro artista contemporaneo che ha avvertito analoghi stimoli, Ugo Nespolo, anche se, in seguito, con un percorso formale piuttosto diverso dal suo.
Lodola "non nuovo", quindi, perché saggio rispetto al passato, sul solco di esperienze storiche che, seppure ancora attuali, sono già patrimonio acquisito, tradizione.
Ma va anche ammesso che il suo modo di essere "non nuovo" possiede un'originalità indubbia, al punto da non poterlo definire né un neo-futurista, come avrebbe voluto da giovane, né un "post-pop", né con qualunque altra definizione che lo identifichi come un continuatore di qualcosa che era stata inventata prima di lui. Lodola è soprattutto Lodola, prima di ogni altra considerazione.
Cosi è stato sentito, cosi è stato subito apprezzato, così il suo essere "non nuovo" è finito per diventare una novità rispetto al nuovo non vero, il nuovo per il nuovo che piace tanto ai mercati, a certi critici e a loro soltanto. Non a caso gli esordi di Lodola sono avvenuti sulla scia di esperienze come i "Nuovi Nuovi" di Renato Barilli, che cosi nuovi in fondo non erano. Come in molta dell'arte dei "Nuovi Nuovi", Lodola ha recuperato il piacere di un'arte che non stabilisce più differenze con l'applicazione (la maggior parte delle sue opere sono potenziali oggetti d'arredamento), perché l'arte - come pensavano Depero, Delaunay, Léger - serve a decorare e reinventare il mondo dell'uomo, a entrare concretamente nel suo quotidiano.
Lodola ha recuperato, o forse trovato per proprio conto il piacere di un citazionismo quasi involontario, non ostentato, senza nessun interesse ad apparire colto e superbo, in questo così diverso dal post-moderno alla Mendini al quale pure potrebbe assomigliare. Lodola pensa solo a far vedere, a illustrare, è quello il suo compito, sia che collabori con gli scrittori o con le grandi industrie, con i musicisti pop o con i pubblicitari. E quello che ci fa vedere più di frequente sono i miti dell'inconscio collettivo nell'era mass-mediatica, la musica, il cinema, senza idealizzarli, ma anzi trattandoli in modo divertito e divertente, basta che il tutto si dia sempre come un gioco.
Alla fine quello che conta è il piacere dell'effetto, l'immediatezza della comunicazione, il gusto di un'immagine, di uno stile, di un oggetto subito riconoscibili nelle loro componenti fondamentali, come una sigla, un'icona, un "logo", senza altre inutili complicazioni. Sigle, icone, Ioghi che giungono ad abitare nell'inconscio e a convivere con quegli stessi miti dai quali provenivano, confondendosi con essi in un continuo meccanismo di specchi riflettenti.
Galleggiare, stare in superficie senza essere superficiali, ecco il grande azzardo dell'arte di Lodola; perché il piacere è qualcosa di rapido e di evanescente, esiste solo se non si va a scavare nelle nostre complicazioni, nelle nostre intricate psicologie, nelle nostre eterne insoddisfazioni.
È questa anche la "popolarità" di Lodola, vocazione anti-intellettualistica a rivolgersi allo stesso pubblico a cui si rivolge il cinema, la televisione, la pubblicità, la musica delle rockstar, ad adeguare i tempi e i modi dell'arte a quelli della vita contemporanea. Le opere di Lodola si potrebbero vedere muovendosi in un'automobile lungo un tratto urbano, fuori dai finestrini, oppure lungo il percorso di una metropolitana: c'è da stare certi che qualcosa di loro rimarrebbe certamente nei nostri occhi e nella nostra mente. Di quanti altri artisti si potrebbe dire altrettanto?


Testo a cura di Vittorio Sgarbi tratto da Controluce 2004