Museo Hassan Rabat
Fonte: Meeting Venice

Un artista eclettico, colto, appassionato, precursore per vocazione, libero per scelta. Iniziatore dell’uso della tecnologia applicata all’arte e cantore di mondi lontani.
Abbiamo incontrato Fabrizio Plessi in occasione della mostra Fez che inaugurerà il 31 maggio il nuovo museo di arte contemporanea di Rabat diretto da Paolo De Grandis ed ideato da Fathiya Tahiri.

Nel modo di lavorare, di parlare e di agire di Plessi c’è sempre il tono autentico dello ‘spirito libero’. Fare arte per poter essere libero, ma non c’è arroganza nel suo modo di stare al mondo; l’autorità gli viene dal coraggio. Di qui la speciale forza dei suoi lavori. Attraverso le vicende, gli interessi, la cultura c’è il tentativo di dare un senso ed una chiave di lettura alla sua arte: un montaggio di idee, pensieri e situazioni, che nel tempo hanno spinto ed improntato il lavoro, per asserire che alla fine le due cose, se non sono la stessa, sono almeno complementari. È partecipe del comune substrato di ogni cultura e la sua ricerca è tesa a generare una vera e propria ‘simpatia’ fra le varie matrici culturali. Un criterio di lavoro che ritroviamo nel progetto Fez a testimonianza che la forma non è mai ricerca di un’esteriorità, ma è un’altra presenza che egli cerca perché mosso dal sentimento per poter poi indurre l’occhio dello spettatore ad andare in profondità fino al punto che l’emozione si renda manifesta. La mostra, a cura di Paolo De Grandis ed organizzata da Arte Communications, si terrà presso la storica Villa Andalucia di Rabat dal 31 maggio al 31 giugno 2006.
L'idea di rivalutare tale importante spazio, un piccolo scrigno di mosaici ed elementi architettonici ispano-moreschi, unitamente al desiderio di aprire il Marocco al dialogo con il contesto artistico europeo è stata fortemente sentita da Paolo De Grandis, da anni impegnato nella promozione di nuove realtà geografiche sia nell'ambito della Biennale di Venezia che su scala internazionale. La sfida, sotto la direzione di De Grandis, sarà quella di far confluire in questo nuovo museo progetti importanti, affinché possa essere garantita l'apertura del Paese al resto del mondo. Aspirazione già prefigurata in occasione della prima partecipazione del Marocco alla scorsa edizione della Biennale di Venezia che ha visto presenti quattro artisti, tra i quali Fathiya Tahiri che non a caso è stata un'essenziale sostenitrice della rivalutazione del museo e del suo lancio a livello internazionale. Tra le tante letture possibili di questa mostra c’è dunque il mutare della sensibilità del Marocco nel rapportarsi all’arte contemporanea, c’è il filo delle collaborazioni tra curatori, artisti ed addetti ai lavori. E c'è la scelta significativa di iniziare con l'alta maestria di Fabrizio Plessi per un esemplare esito di apertura del sipario.


Come nasce la sua carriera di video-artista?

Mi sono formato negli anni '60, stagione in cui il panorama artistico italiano era dominato dalla pittura e dalla nascita dell'Arte Povera. Ho pensato che il video fosse un elemento tecnologico molto importante ed ero sicuro che avremmo assistito nel futuro ad uno sviluppo vertiginoso di queste tecnologie. Essendo un uomo curioso, ho creduto che l’utilizzo della tecnologia ai fini dell'arte fosse una prova importante e dunque mi è sembrato inevitabile scegliere questo cammino. Il cinema, la fotografia, il video, erano dei nuovi media per me importantissimi perché offrivano la possibilità di uscire dai canoni stereotipati della pittura. In un contesto fortemente contrassegnato dalle querelle sulla pittura e sulla non-pittura, informale e noninformale, ho ritenuto necessario prendere una posizione totalmente divergente e questa mia scelta allora considerata avventata, mi ha portato poi ad essere il pioniere in Europa in questo campo.


Lei è l'interprete per eccellenza del connubio tra espressione artistica e alta tecnologia. Qual è la sfida?

La sfida è proprio quella di far convivere gli elementi legati alla tradizione pittorica come la pietra, il marmo, il legno, il ferro, con il cangiante tecnologico. Come l’alchimista con i vasi comunicanti, penso di aver inventato una pratica finalizzata a far dialogare materiali apparentemente inconciliabili. Non per auto-celebrarmi, ma in effetti il termine "video-installazione" è stato coniato da me all'inizio degli anni Settanta. In seguito il video è diventato una sorta di prassi nell’arte e la diretta testimonianza è data dal fatto che il settanta per cento della produzione delle Biennali è fatta di video-installazioni. Al contrario il clima di allora era difficilissimo e la maggioranza degli addetti ai lavori mi derideva. Pensiamo anche a quanto tempo è passato dai miei inizi, quando la televisione era in bianco e nero ed allo sviluppo della tecnologia nel mondo dell’arte.


I colori sono il fondamento stesso dell'arte. Il suo è un approccio simbolico o emozionale?

Assolutamente emozionale. Vorrei trasmettere allo spettatore le emozioni che io stesso provo nel creare le opere. Il mio è sempre un lavoro di emozione. Nonostante l'utilizzo del video, la mia arte è cromatica ed ha sempre avuto un’impronta pittorica, risentendo così della mia influenza classica. D’altronde io stesso mi considero un classico, anche se utilizzo tecnologie diverse da quelle impiegate per dipingere un quadro.

 

Attraverso i monitor inseriti all'interno delle sue videoinstallazioni, parlano elementi mitici come l'acqua, il fuoco, l'aria, la terra, i suoni, che nell'insieme dell'installazione acquistano un'accezione quasi sacrale. Cosa rappresenta per lei il sacro?

 

Credo che la televisione sia intrinsecamente sacra perché immateriale: l'immagine televisiva non esiste nella realtà, il pulviscolo luminoso che crea le immagini è di per sé spirituale. Non c'è niente di fisico. Mi dispiace moltissimo che la Chiesa non si sia mai occupata dei nuovi media che per l'appunto attraverso l’etere passano un’immagine immateriale e dunque altamente spirituale. Naturalmente il fuoco, l'acqua, la terra, sono tutti elementi legati anche alla spiritualità dell'opera.


Nelle sue installazioni si ha l'impressione che il video perda la sua funzione tipicamente narrativa che ha invece in gran parte della video-arte.
Qual è la finalità di tale scelta?

Io sono sempre stato contro la narratività, non amo tutto ciò che descrive, che racconta. Il cinema racconta, l'arte non deve raccontare, deve produrre delle emozioni. L'immagine che uso per riprodurre l'acqua, il fuoco è altamente evocativa, e non deve essere né descrittiva, né aneddotica, né decorativa. Sono stato uno dei primi a pensare che le video-installazioni dovessero essere dei grandi oggetti in cui lo spettatore potesse spingersi dentro il suono, le immagini, percepire le atmosfere; effetto lontanissimo dal sedersi davanti al video e guardarlo come se si fosse al cinema. Oggi c'è questo grande equivoco che associa al video la funzione di raccontare e invece secondo me è proprio l'opposto. Possiedo moltissime immagini video di fuoco, di lava, di terra, di vento ed esse stesse sono di per sé elementi ‘conclusi’, che non devono narrare in assoluto nulla.

Ha dichiarato che le sarebbe piaciuto essere un viaggiatore del diciannovesimo secolo. Come si traduce questa sua passione nel fare artistico? C'è un approccio sistematico o si lascia sedurre dagli echi di storie, memorie, tradizioni, forme e valori che stratificandosi compongono un luogo con il carico del suo genius loci?

Io sono un grande viaggiatore, instancabile e, infatti, in un mese viaggio almeno venti giorni. In questo mio continuo peregrinare porto dei frammenti, dei disegni, dei piccoli segnali, dei ricordi immaginari di quello che per me è stato il viaggio, perciò niente di narrativo, come dicevo prima, ma delle cose che evocativamente mi restituiscano l'atmosfera dei luoghi. Ne è una dimostrazione la mostra Traumwelt tenutasi a Berlino nel 2004. All’interno delle venti sale ho ricreato venti luoghi visitati nel corso della mia vita e riproposti in una chiave completamente diversa - che è quella mia, del mio lavoro. Il fine era quello di riproporre qualcosa che non fosse oggettivamente il luogo, ma che evocativamente permettesse di risalire allo spirito del luogo.

Il confronto con le diverse culture che popolano i cinque continenti è da sempre una delle esperienze più importanti per una crescita intellettuale. Nella sua esperienza individuale questo confronto cosa ha aggiunto all’espressione e alla rappresentazione delle sue opere?


Ciò che più mi terrorizza oggi è la globalizzazione. Andiamo in tutto il mondo e viviamo esattamente tutti le stesse cose. La civiltà ha portato purtroppo degli aspetti negativi: i negozi, le strade, l’arredo urbano, uguali in tutto il mondo. Credo sia importante preservare la memoria. In una civiltà come quella odierna, in cui si perde facilmente la memoria di tutto, ritengo che il recupero della memoria oggettiva dei luoghi sia uno dei doveri dell'artista. L'artista deve aiutare a preservare la memoria dei luoghi, senza cadere nel folclore naturalmente.

Lei inaugurerà alla fine di maggio il primo museo internazionale di arte contemporanea a Rabat. Come nasce il progetto Fez e con quali finalità?


È stato Paolo De Grandis a propormi questo progetto per il nuovo museo - piccolo ma interessantissimo - di Rabat. Ho fatto un sopralluogo, e poiché credo che questi paesi emergenti abbiano bisogno di aiuti anche culturali, sarà un piacere per me inauguralo. Inoltre, sono sempre stato particolarmente affascinato dall’Africa, alla quale ho dedicato molti lavori. Soprattutto il Marocco, che ho visitato molte volte; nello specifico, avendo realizzato un’opera su Fez, ho pensato che portarla a Rabat sarebbe stata un'idea originale e anche importante per il Marocco.

A Rabat e Fez nascono i famosi tappeti in velluto raso e nelle città sono presenti le tintorie a cielo aperto. Com'è interpretata nell'opera Feztale antichissima pratica?


Ho realizzato due pezzi molto conosciuti perché hanno fatto il giro di molti musei nel mondo: Bombay e Fez. In Bombay vi erano i lavatoi, i lavatoi dell'anima e per quell’opera usai i cotoni bianchi che avevo scoperto in quei luoghi. Dopo aver girato tutto il mondo, finalmente l'anno scorso l’opera è stata portata al Museo di Arte Moderna di Bombay. La serata inaugurale è stata un grande avvenimento, e finalmente gli indiani hanno potuto scoprire la Bombay vista dai miei occhi e così parallelamente il pubblico di Rabat potrà vedere la mia Fez. Quindi non più i lavatoi di Bombay, ma le tintorie. È un pezzo dedicato all'acqua rossa delle lavanderie ed alle lane rosse che si tingono - appunto - a Fez. Nell’opera s'inseriscono le musiche di Sakamoto, e quindi è un lavoro di alta evocazione spirituale e paesaggistica, un nuovo paesaggio metafisico, elettronico.

Fez e Rabat sono due delle più antiche città imperiali del Marocco, da sempre considerate il centro religioso, culturale e artistico del regno. Pertanto, la sua presenza in un paese fortemente radicato alle tradizioni nella pratica artistica è da considerarsi emblematica. Lei come vive questa esperienza? La ritiene una responsabilità?


È una grande responsabilità perché - come dicevo prima - credo che l'artista debba riproporre la memoria del luogo. Ormai siamo abituati a vedere le tintorie come un luogo turistico. Al contrario la mia intenzione è stata di riproporre le tintorie, all’interno di questo nuovo museo, con scritture, disegni, apparati iconografici affinché i marocchini possano riprendersi la memoria deturpata dal turismo invadente, che ormai sta uccidendo tutto. Penso che presentare ciò in un museo, un luogo che oggi è considerato solamente turistico, possa rappresentare oggi una grande riappropriazione della cultura autoctona marocchina. Oltre ad essere un’esperienza significativa, sarà anche un grande piacere realizzare questa mostra insieme a Paolo, che ne sarà il curatore. Mi auguro che questo museo possa diventare un luogo in cui possano confluire tutti i rapporti tra Europa e Africa.

Sede del nuovo museo sarà la celebre Villa Andalucia, edificio ricco di storia ed elementi architettonici ispanomoreschi. Quali sono i suoi parametri per la scelta di un ambiente espositivo?

La cosa più importante è far vedere come nascono questi progetti. Non per fare della mera didattica, ma per creare un rapporto tra la progettazione - legata essenzialmente ai primi segni impressi sulla mia percezione - l’esecuzione e la finale comprensione dell’opera stessa. Dunque, la possibilità di presentare anche il percorso ideativo dell’opera Fez in questa villa storica mi sembra un'ottima operazione culturale. Ed il compito di Paolo De Grandis sarà quello di mantenerla a questi livelli; sarà una bella avventura poterlo fare insieme.


L'interesse per l'elemento acqua nelle sue opere. Che legame c’è con Venezia?

Certo, io sono emiliano ma mi sono trasferito a Venezia da ragazzino per frequentare il Liceo Artistico e l'Accademia. Ho sempre visto Venezia come una città ‘allagata’: aspetto sempre che l'acqua si ritiri e vada via. Con il passare del tempo, la liquidità ha influito fortemente sulla mia fantasia e la mia passione, per cui anch'io sono diventato - come l'acqua - molto elastico nei pensieri. Odio tutto ciò che è squadrato, che è definito; la mia è un’immaginazione flessibile. Con Venezia, però, ho un rapporto di odio e amore. Odio profondamente il detto dei veneziani «Non sta’ a far onde», perché vogliono che tutto rimanga immutato. Io invece vorrei fare una grande onda, che porti via tutta la parte più perversa, conformista e oscurantista di questa città. Questo è il mio sogno e penso che la città ne avrebbe tutto da guadagnare.

di Carlotta Scarpa

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