China - Feng Feng
Nella tendenza della nuova arte indipendente cinese Feng Feng occupa un posto a sé per la sua capacità di interpretare la forza iconica di alcuni grandi simboli visuali. Il suo cervello che fuma o che si illumina, ad esempio, è una scultura affabile che parla di noi. Il suo autore l’ha concepito durante un periodo in cui cercava disperatamente di smettere di fumare e la sua mente era ossessionata dall’idea di una sigaretta: ecco allora quest’oggetto in porcellana (materiale organico e lucido che traduce felicemente la consistenza gelatinosa di un cervello), nel quale si inserisce incenso acceso e che fuma da tanti piccoli buchi. Il cervello che si illumina, invece, è una lampada da tavolo, attualmente allo stato di prototipo, che l’artista sta progettando per l’equivalente cinese dell’Ikea. Il suo Palazzo Ming (2008-9) è un importante intervento pubblico di architettura vegetale in cui un intero piccolo bosco, piantato nel luogo in cui sorgeva un tempo un palazzo imperiale dei Ming, è stato sagomato mediante le potature nella forma dell’edificio non più esistente; le piante crescendo tendono continuamente a debordare, alterando le linee dell’architettura e il mantenerle riconoscibili attraverso periodiche potature implica un esercizio di memoria e ripensamento non fatto una volta per sempre, come nel caso dei monumenti di bronzo, ma costante e continuo, affidato alla presa di consapevolezza di persone sempre nuove.
Insieme alla moglie Biao Biao, anche lei artista, Feng Feng ha prodotto una mostra dal titolo Canton/Canton, esperimento di dialogo con la creatività del pubblico attraverso la celebre immagine “coniglio o papero?” resa nota dagli studi di psicologia della percezione.
La fontana W, presentata a OPEN 14 in dialogo con l’evento Cracked Culture? The Quest for Identity in Contemporary Chinese Art, non ha bisogno di spiegazioni: il suo tema è certamente la polluzione creata dal diffondersi in Cina dei fast-food di tipo occidentale; ma la delicatezza giocosa del pezzo, e la simpatia sotto pelle che l’artista lascia trasparire per il colore e la forma di questo simbolo americano, nonostante tutto così felicemente iconico e visualmente avvincente, sono testimonianza di una sensibilità molto aggiornata.
Testo a cura di
Gloria Vallese
Bangladesh - Ronni Ahmmed
La Tomba di Qara Köz commemora la saga della principessa Moghul Qara Köz – dalla matrice materna/grembo di piccole morti entropiche/tomba a tangenti e accordi dal desiderio trasformativo - che esercitò grande influenza nella Firenze dei Medici. La tomba è organizzata su tre livelli: la narrazione multiforme di Qara Köz esistente nell’immaginario collettivo, che affiora in opere come L’incantatrice di Firenze di Salman Rushdie e nei film Mughal-e-Azam (1960) e Jodha Akbar (2008), viene (tras)portata tra diverse realtà diventando architettura performativa, capace di attivare una rete aperta - di emozioni e memorie comuni - per gli immigrati bengalesi (illegali) che agiscono sull’arazzo psicogeografico di Venezia. Un secondo livello emerge se si sposta il piano delle associazioni evocando racconti di una o più Venezie liquide, ad esempio il corpo principale della piramide composta di 1254 bicchieri ricorda il Marco Polo di Calvino; i disegni animati su ogni uovo utilizzano frammenti di Jacopo Bassano, Veronese, Jacopo Tintoretto, Paolo Farinati per raccontare le avventure di Pinocchio di Robert Coover, di Aschenbach di Thomas Mann alla ricerca della purezza, o di Mahler che legge Li Tai-Po. Il terzo piano della tomba è un omaggio al progetto di Ai Weiwei in Documenta 12, Fairytale, e invita 101 bengalesi a registrare/trasmettere i loro desideri segreti mentre questi nuovi immigrati portano offerte presso la Tomba di Qara Köz e pregano perché i loro desideri si avverino. La Tomba di Qara Köz, nella polifenomenalità disinibita dell’essere “messa in mostra”, diventa testimonianza di vita vissuta in trasformazione, in polifonia; il suo approccio sintetico/sincretico radicato nell’Opera Aperta, come il teatro tradizionale bengalese, tenta di portare in scena una mise en abyme concettuale.
Testo a cura di
Ebadur Rahman
Albania - Alfred Milot Mirashi
Anatomia di una chiave miracolosa
Con la chiave o si apre o si chiude. Questa grande chiave-scultura di Alfred Milot Mirashi nasce per aprire. Se ogni toppa ha la sua chiave, questa è universale. Funziona in ogni parte del mondo, in ogni latitudine culturale, indipendentemente dalla tradizionale simbologia locale. Ha un limite, però. Funziona solo quando c’è da vanificare un ostacolo nella via per la pace, l’incontro fra le religioni e le culture. A favore del dialogo e la pace, questa massa di ferro tra pieni e vuoti si fa miracolosamente leggera, accattivante, penetrante, come vuole la sua simbologia “fallica”. Non è una chiave blasfema. A fare questo miracolo è soltanto l’arte. Roba da uomini tout court. L’arte, quando non è pompi eristica, decorativa, celebrativa o ripetitiva di forme stracche e stucchevoli, ha effetti sociali sorprendenti. E c’è da augurarsi che la chiave di Milot faccia il giro del mondo. In quest’occasione dell’ormai ben nota e consolidata OPEN, i veneziani e i loro ospiti cinefili di sicuro sosteranno davanti a questa scultura singolare. Oldenburg ha disseminato per il mondo le sue enormi tenaglie, mollette per i panni e ogni altro oggetto d’uso quotidiano (espressione che ricorda Duchamp). Pop. Come il Nuovo Realismo teorizzato dal grande e compianto Pierre Restany sarebbe stato scritto in qualche libro semplificatorio. Eresia. Ed eresia sarebbe se si chiamasse in causa l’americano a proposito di questa chiave. Essa è antipop per come è stravolta rispetto alla sua morfologia “quotidiana”. L’esagerazione per quanto animata e tesa (macroopera) qui diventa esasperazione. Non è l’enfasi a sostenerla, ma l’interesse per una forma “espressiva” anziché dichiaratoria, per la sua anatomia in torsione anticlassica, irregolare. E tormentata. Come tutte le genti che si tendono, anima e corpo, nel loro anelito di pace. Anni fa giunse agli italiani una minicalcolatrice, dono del Presidente del Consiglio. E se l’Onu facesse circolare, in qualsiasi modo, questo messaggio di arte e di pace?
Testo a cura di
Carmelo Strano