Italia
Leonardo Chionna
INDAGINI SUL QUARTO MILLENNIO
Leonardo Chionna è autore di segni tridimensionali, di sculture dal sapore arcaico, di sogni appena trattenuti, di profezie fatte di pura materia. Ci troviamo di fronte a un artista che annuncia un quarto millennio prossimo venturo, mostrandone i reperti archeologici e le degradazioni che, da quel futuro, risalgono al nostro presente.
Si avverte nella sua ricerca la necessità di immergersi nel mistero del tempo in chiave plastica, svelandolo a se stesso e a noi, ribaltando un’intuizione profetica in una sorta di scavo alla ricerca dei detriti e dei messaggi che lasceremo ai posteri. Contempla quindi l’oggetto della sua ricerca col distacco dello scienziato, misurando l’inevitabile mutevolezza della materia lungo il tempo della storia, rinnovando l’antico assioma filosofico per cui nulla si crea, nulla si distrugge, e tutto invece si trasforma. Difficile rispondere al quesito se Leonardo Chionna sia artista astratto o figurativo, e sarebbe comunque troppo sbrigativo confinarlo in uno qualunque dei due termini che, soprattutto in questo caso, sono del tutto generici. Dunque è bene che il nostro scultore resti in parte inafferrabile. In verità le sue radici sono molteplici, la prima delle quali è una sorta di figurazione lasciata in sospeso - le tracce fossili del battistrada di un pneumatico sono la ricostruzione possibile di un evento ipotetico. Su questo dato si sovrappone il ritmo atonale del colore, e la straordinaria qualità della superficie calda della materia bronzea che, ben lontana da qualunque tentazione di decorativismo, enuncia un messaggio estetico di nettezza, precisione ed equilibrio formale. Criptico e inquieto, questo artista propone all’osservatore la vitalità creativa di un archetipo, quello di Atlantide, dove l’utopia di un’età aurea si intreccia indissolubilmente all’idea di una rovina senza scampo e senza illusioni sulle sorti progressive dell’umanità. Chionna appartiene di diritto alla scuola italiana del secondo Novecento, avendo optato per l’esattezza di un dettato formale di ascendenza classica, dove appaiono combinate con rigore forme diverse, in parte astratte e in parte allusivamente figurali. Ci si trova qui di fronte al lavoro di un manipolatore della materia, a un creatore di duplici momenti asimmetrici e simmetrici, di ritmi complessi, in una equilibrata logica formale. In ognuna di queste ricerche, la memoria archeologica supera il momento naturale o antropologico, per approdare al lido ambiguo di un altrove culturalmente vicino al nostro presente, del quale, per altro, elude i richiami facili alla cronaca o all’ideologia dell’impegno; anzi, è qui evidente la volontà dell’artista di non tradire la poetica che lo ispira e che continua a celebrare in ogni sua nuova elaborazione.
Testo di Paolo Levi
Italia
Domenico Di Genni
"Archive" è un gruppo di cinquanta lavori su carta (120x200 cm) custoditi in un libro-contenitore in acciaio. Ritratti indagati nella loro identità individuale per quel che riguarda i tratti somatici, ma accomunati dall’essere racchiusi in un luogo fisico preciso.
Sono volti di ogni luogo e di ogni cultura, vecchi e giovani di etnie diverse. Domenico Di Genni affronta il tema della multirazzialità assumendone gli aspetti più variopinti e positivi, riti e colori, musicalità e connotazione fisica, al di là delle varie globalizzazioni in atto. L’opera che il mio amico ha pensato per OPEN permette una coesistenza pacata protetta dal grande libro della vita. Di Genni è un artista-narratore che ama visitare paesi lontani e fermarcisi per un po’. Immergersi nel quotidiano di persone qualsiasi appartenenti a terre distanti ha dato alla sua pittura un’affabulazione delicata e concreta insieme. Quasi un giornale di viaggio, il suo lavoro è diventato strumento d’indagine dei grandi temi sociali che ancora (o soprattutto) oggi interessano diversi aspetti della civiltà occidentale, dall’economia alla religione, dall’organizzazione civile alla percezione della propria dignità di persone. Il vero soggetto dell’installazione che Di Genni porta a OPEN è la differenza, non in senso debole, ma considerata nella sua connotazione di eccezionalità. Ogni essere umano ha i medesimi diritti e le medesime aspettative, non le medesime possibilità. L’altro elemento, più inquietante, che il lavoro di Di Genni suggerisce è che tutti siamo in qualche modo schedati, archiviati in un registro non manomissibile dalle persone qualunque. Il libro dell’artista abruzzese impone una lettura diversa dei soggetti che ne fanno parte. Si tratta di una specie di luogo paradisiaco dove, ottenuto il permesso d’entrare, si ha diritto di permanenza a prescindere da chi si è o come si è. In un mondo che antropologicamente tende a sconfinare, a mescolarsi, ma è ancora limitato da valori come il denaro e il possesso, l’opera di Di Genni racconta un’altra possibilità, più umana, di sicuro più civile.
Testo di Anna Caterina Bellati
Italia
Mauro Benatti
Un inno ai volumi, un elogio delle forme in movimento del corpo femminile. Questo, prima di ogni altra cosa, sono le sculture di Mauro Benatti. Da sempre l’artista esplora la verità sovversiva e primordiale del corpo nudo, e lo fa attraverso il frammento, la forma che permette di esprimere un’emozione o un’idea anche derogando al naturalismo.
Il suo universo è composto da figure di una bellezza antica, primitiva. I corpi sono sinuosi, eleganti, ma al tempo stesso solidi e pieni, bloccati in un’immobilità fremente d’energia. E l’alternarsi di superfici ora scabre, ora levigate, cattura lo sguardo e anticipa il gesto. Lo slancio. La ribellione. Il motivo iconografico dell’“Amazzone”, che ha grande fortuna nell’opera di Benatti, si configura come il punto culminante di una ricerca dell’essenza simbolica del movimento. Tra le storie della mitologia, l’artista sceglie quella di Pentesilea, figlia di Ares e regina delle donne guerriere, una figura dalle molte sfaccettature. Pronta a mostrare tutta la sua forza e tutta la sua dolcezza, la sua sensualità e la sua aggressività, sintesi perfetta di emozione e ragione, di natura e cultura. Qui l’artista la rappresenta durante lo scontro con Achille. L’eroina, ferita, con le ultime forze si mantiene in sella al cavallo impennato. Dal collo dell’animale e dal busto della donna partono linee divergenti e opposte che non hanno modo di disperdersi nella testa o nelle braccia, ma si raccolgono nel cuore della scultura, l’arco di ferro. Da questo centro si sprigiona l’energia che conferisce alle figure uno slancio estremo, preludio alla fulminea azione del salto che sta per compiersi. La scelta di un soggetto classico ben si sposa con l’amore di Benatti per l’antichità. Il passato è per lui un campionario di simboli e di riferimenti che s’intrecciano indissolubilmente l’uno nell’altro, che si fanno carne, sangue e materia senza alcuna illusione di apollinea perfezione. Il frammento, l’incompletezza è una caratteristica ricorrente nei reperti archeologici. Ma appartiene anche, in modo diverso, a tutta la cultura moderna e contemporanea. Da Brancusi a Rodin, a Giacometti. Allo stesso modo Benatti scava nell’antichità le forme del presente, contaminando materiali classici come la pietra, con quelli recuperati come lamiere o reti metalliche, riuscendo così a fondere due universi che di solito si vorrebbero inconciliabili e distinti: quello della natura più genuina e quello della civiltà più raffinata, quello dell’istinto e quello dell’intelletto.
Testo di Licia Spagnesi
Italia
Giulio Serafini
Da sempre l’uomo guarda il cielo chiedendogli conto del proprio stare sulla terra. Il lavoro di Giulio Serafini si muove attorno a questa questione teoretica che nei secoli ha interessato non solo filosofi e poeti, ma anche numerosi pittori.
L’artista di Urbino ha scelto di parlare della luna declinandola con materiali diversi e ritraendola in composizioni che trascorrono da un’ispirazione di stampo cubista fino a una visione neo-romantica. Nel nostro mondo sempre più teso all’accumulo di beni materiali e le cui aspirazioni si limitano alla sfera del benessere, Serafini addita l’alto proponendo una riflessione sul significato della nostra vita. Si tratta di un ritorno all’origine e a quella innocenza della quale parla Heidegger, quando suggerisce la necessità di recuperare la purezza dello sguardo che avevano gli antichi. Inserito nelle ineluttabili leggi dell’universo, l’uomo contemporaneo avrebbe più che mai bisogno di ritrovare la rotta. La luna, divinità pagana di grande valenza estetica, è sempre stata paragonata a una lampada sospesa nel cielo per illuminare il nostro cammino notturno. Ma nell’empireo delle divinità greche è anche una donna di grande bellezza che tenta gli uomini con il suo splendore. Fino a tutto il Seicento considerata la semplice ancella del nostro pianeta, con Galileo Galilei si trasforma in un oggetto celeste dotato di valli, pianure, montagne e maree. Serafini fa rifermento a questa luna postcopernicana. E la sua pittura tiene conto di tutte le valenze psicologiche e scientifiche che ciò comporta. A seconda dei materiali prescelti la luna diventa una forma consolatrice, la protagonista della notte, o l’elemento che rimanda al nostro senso del divino. L’invito di Serafini è di tornare a guardare con umiltà il tetto, fatto di corpi e di vuoto, che ancora oggi ci ostiniamo a chiamare cielo. Per ricollocarci in un giusto equilibrio con le cose del creato.
Testo a cura di Anna Caterina Bellati
Cuba
Julio Larraz
GIOCHI DI POTERE
Nell’universo pittorico di Julio Larraz, la raffigurazione del potere e dei suoi effetti polimorfi occupa una posizione saliente, pari all’importanza rivestita da un tema imperituro e sempre controverso. L’ironia dell’artista cubano bersaglia incessantemente i miti e le ossessioni connesse alla volontà di dominio, svelandone con le proprie immagini la violenza e l’irrazionalità, nonché la profonda inconsistenza. Con penetranti allegorie ci schiude una visione del potere inteso ora come sindrome ora come colpa: visione, comunque, essenzialmente poetica, frutto di una ricerca che, al di là degli spunti concettuali o ideologici, non travalica mai i limiti della pittura (o della scultura), che non elude in nessun caso e per nessuna ragione i presupposti della creazione artistica.
Pittore maturo e sapiente, Larraz affronta il tema universale del potere riducendolo a forma e colore, rivelandone le debolezze "di contenuto" e additandoci così l’unico modo per "giocarlo". Con le proprie nature morte, l’artista cubano crea metafore pittoriche e scultoriche sconcertanti che, pur gratificando gli occhi, stimolando l’immaginazione ed appagando il gusto, finiscono per scompigliare la mente: questo perché il sarcasmo che sempre le sottende — causticità da epigrammista non lontana dal proverbiale "spiritaccio" toscano — dà origine a significati ambigui e, dunque, a decifrazioni simultanee e diverse, spesso opposte. Questo vale anche per le sue figure umane — o meglio, i suoi "figuri" —, personaggi invariabilmente ed esemplarmente equivoci, affascinanti e repulsivi allo stesso tempo, emblemi di un’umanità pervertita (e deformata) dall’ansia di potere. Nel corso di trent’anni, Larraz ha costruito, oltre ad un vocabolario e ad una sintassi personali, un proprio sistema retorico. Le sue "invenzioni", infatti, consistono in trasposizioni, rimandi e insinuazioni che nell’insieme obbediscono a due modi di raffigurazione, il traslato e l’ironia. Nell’ambito della retorica tradizionale, il traslato appartiene alle "figure di contenuto", mentre l’ironia rientra in quelle "di pensiero". Larraz, tuttavia, riformula disinvoltamente l’uno e l’altra, applicandole in maniera eterodossa e sorprendente. Nelle sue opere, per esempio, il traslato agisce non meno sulle forme che sui contenuti, sfociando in immagini provocatoriamente naturalistiche. Invero, i suoi "bodegones" ricordano tanto Sanchez Cotán, maestro insuperato del naturalismo seicentesco spagnolo, quanto Arcimboldo, il grande "traslatore" di Rodolfo II. Come Arcimboldo, Larraz è un attento fisionomista ed un fine ritrattista. Ma le sue figure di pensiero, ben più veementi e disincantate, battono strade diverse. Da Sanchez Cotán, il pittore cubano ha ereditato (studiatamente) luci e ombre, immettendole, però, in contesti formali e concettuali vivi e mordaci… sotto mentite spoglie di nature morte. Questo peculiare trattamento del “bodegón” assume proporzioni monumentali in “Space Station” e in “Eclisse”, sculture entrambe che, al di là delle apparenze innocenti e perfino giocose, nascondono significati sferzanti. In “Tyrannosaurus rex”, teschio di un immane teropode (e per traslato “re dei re”) che pur da morto esige sacrifici, il significato si fa palese, o meglio, decifrabile: sebbene perenni, gli effetti di potere si attenuano sotto il peso dell’ironia. Potere ubiquo e polimorfo, ora rappresentato da una minacciosa pila di tazzine in risibile equilibrio, ora simboleggiato da un fenomeno astrofisico ove la sproporzione degli elementi in gioco riporta a temibili giochi umani. Il potere ha piedi di creta, suggerisce, il “Monarca”, bianco violoncello mummificato emettendo suoni d’oltretomba che, inudibili, non spaventano. Anche “Headless Horseman”, al di là dei riferimenti leggendari, rimette alla sopravvivenza dell’autoritarismo: quantunque acefalo il potere si riproduce e vaga qua e là, fantasma minaccioso fin dalla notte dei tempi. E che dire di quel mefistofelico personaggio assiso sulla portantina? Nulla, visto che già dice molto da sè. Larraz si è svezzato disegnando caricature. A questo tirocinio si deve gran parte della sua incisività di artista. Infatti, Larraz è insuperabile nel creare intere storie —di norma insidiosamente ambivalenti— a partire da un flash: un viso dietro il finestrino grondante e appannato di un’automobile (“Life, liberty and pursuit of happiness”), il dorso nudo di una giovane donna armata di Kalashnikov (“El vado”) o l’inquietante apparizione raffigurata in “Encuentro en Sertao de Antunes”. Sintesi narrative a sfondo allegorico o analogico, ottenute per mezzo di traslati rivisti e aggiornati ideologicamente, ottenute, soprattutto, a partire dall’esperienza del caricaturista. Caricatura vuol dire sempre deformazione, non importa se a sfondo comico o drammatico. Il pittore cubano l’ha imparato negli anni Settanta, disegnando per il New York Times e il Washington Post. In seguito ha appreso che la verosimiglianza di un ritratto dipende anch’essa, sempre, da un qualche grado di deformazione introdotto dal ritrattista. La verità non deve essere strappata al modello — ha capito Larraz — bensì aggiunta, sovrapposta ad esso con l’aiuto di segni di estraniamento, poiché il vero, nell’arte, nasce dall’infedeltà nei confronti del reale, ossia da una finzione espressa in termini di verità. Gli enormi busti che con le loro ombre altrettanto smisurate colmano il settore centrale della navata di Sant’Agostino esemplificano alla perfezione questo paradosso: essi sono verosimili non perché rassomiglino ai senatori a suo tempo scolpiti da anonimi artisti della Roma Imperiale, ma perchè se ne discostano, convogliando significati diversi da quelli originali. Essi danno luogo ad un rito, un’immobile liturgia cadenzata —pur nella sua fissità — da una musica ossessiva. Dall’ascesa di Giulio Cesare sono trascorsi più di duemila anni, qualcuno di meno dalla sua uccisione, ma le cerimonie del potere si perpetuano ancor oggi, sempre uguali a se stesse. La Gallia è scomparsa ma come una fenice riappare ad ogni pie’ sospinto, preferibilmente fra Nubia e Mesopotamia.
Testo a cura di Giorgio Antei