Italia
Pier Toffoletti
Alla fine degli anni Sessanta Germano Celant mise in evidenza una nuova generazione di artisti italiani raccolti intorno al concetto di arte povera. Il movimento, rifiutati i mezzi espressivi tradizionali, impiegava materiali organici, minerali e scarti industriali assumendoli nella loro essenza primaria. Proprio in quel periodo Giuseppe Penone (Garessio 1942) rifletteva sulla natura e i modi in cui l’uomo la modifica con il proprio intervento. In particolare la sua ricerca si concentrava sul processo di crescita degli alberi. L’artista scava delle travi in legno nelle quali fa rivivere il tronco originario. Ogni manufatto in legno è un artificio che deriva da una forma vegetale vivente. Con questa operazione a ritroso nel tempo lo scultore restituisce un’idea di paesaggio primordiale. Oggi Pier Toffoletti raccoglie quel messaggio e lo rivisita con l’installazione costruita per OPEN XI. Prende delle tavole di scarto e le assembla in modo da suggerire l’immagine del fusto di grandi piante abbattute. In alcune parti le ricopre con intonaci speciali perché resistano al vento e alla pioggia, poi le colora con la vivezza dell’acrilico. Il risultato sono 9 coni del diametro medio di cinquanta centimetri e che misurano in altezza due metri. L’operazione allarga il tema sul quale Toffoletti si muove da un paio d’anni, le luminescenze arboree. Si tratta di tele di grande formato dove interagiscono elaborazioni digitali e pittura, alla quale l’artista imprime un’azione rotatoria che suggerisce l’idea del vortice. Ma mentre questi boschi sospesi tra incubo e fiaba, luogo onirico dove tutto può accadere, dicono di una realtà svuotata di ogni altra forma vitale, gli alberi fioriti sul lungomare di OPEN XI sono carichi della speranza di un mondo nuovo, in cui l’uomo smetta di costruire e lasci spazio alla tenera violenza della natura.
Testo a cura di Anna Caterina Bellati
CREAM / Straitjackets
In senso orario:
Barbara Taboni
Grazia Ricevuta, 2008,
Nebojsˇa Despotovic´
echo+manifesto, 2008
Cristina Treppo
Nobody, 2008
Giuseppe Vigolo
Flag, 2008
Giacomo Roccon
Politicamente corretto, 2008
Martin-Emilian Balint
La Cena dei Matti, 2008
Dania Zanotto
Lunatic wild warrior, 2008
Sette artisti di CREAM (Martin-Emilian Balint, Nebojsˇa Despotovic´, Giacomo Roccon, Barbara Taboni, Cristina Treppo, Giuseppe Vigolo e Dania Zanotto) riassumono il contenuto della mostra “On Madness” con questo intervento su una serie di oggetti singolari: sette camicie di forza, tutte uguali a parte il colore, realizzate in jeans, trasformate e interpretate da ciascuno. La camicia di forza è già, in sé, un simbolo concentrato e potente. In esso si condensa la storia del contenimento della follia, del suo trattamento, della sua reclusione, della sua cura attraverso i secoli: dal Medioevo, quando i folli, caricati su una barchetta o su una zattera, venivano affidati alla corrente dei fiumi che lentamente li conduceva al mare, fino ai primi esperimenti di trattamento medico-scientifico della malattia mentale nei secoli XVII-XVIII, che porteranno a loro volta alla creazione dei manicomi, questi luoghi a metà ospedali a metà carceri, in cui medicina e carità si univano a repressione e costrizione. Una camicia di forza in jeans assume una valenza ironica, complessa; visto che il jeans è, a sua volta, un grande concentrato di simboli. Nato come indumento di fatica, realizzato, come vuole una fra le molte leggende, per non buttare una grande partita di stoffa blu molto robusta, destinata a realizzare tende per l’esercito nordista durante la guerra di Secessione americana, ma che si era purtroppo scolorita, diviene attraverso il cinema, negli anni ’50, il simbolo per eccellenza di una vita dura ed estrema di libertà e di avventura. Dopo la seconda guerra mondiale dilaga in tutto il mondo, negli anni ’60 è adottato dai giovani, e da quel momento inizia un percorso che lentamente lo trasforma: fagocitato dalla moda, avvia un’altra metamorfosi, che porterà a varianti ultragriffate, costose ed esclusive, a capi attillati e vertiginosi. Finiture preziose di brillanti o pelliccia ne sovvertono il significato originario; che tuttavia sopravvive, visto che intanto la gente continua a usare i jeans nei luoghi di lavoro, e a nutrirsi dei vecchi film impregnati di nostalgia. Così, il tessuto più globalizzato del mondo, ricco ormai di ironie volontarie e involontarie, diventa capace di simboleggiare altre, metaforiche, camicie di forza contemporanee: per esempio, quelle del corpo rimodellato e costretto dal gioco sadomasochistico della moda; per esempio, quelle della griffe come elemento obbligatorio di prestigio sociale. In tutto questo il jeans non perde la sua capacità di trasmettere un senso di libertà e di sfida che la camicia di forza anzi sottolinea. Il progetto “On Madness: Straitjackets”, da un’idea di CREAM, di Roberto Rossi e di Daniele Begnoni, è stato realizzato con camicie di forza in jeans appositamente disegnate e prodotte da “RJC-Requested Jeans Culture” di Verona.
Testo a cura di Gloria Vallese
Cina
Chen Wenling
LA FAVOLA DI CHEN WENLING
LOTTA E FANTASIA IN UNA SOCIETA' CONSUMISTICA
Le sculture di Chen Wenling rappresentano il coacervo di immagini intangibili dell’epoca in cui la Cina è diventata consumista e, adottando una visualizzazione allegorizzata, rivelano quanto il materialismo abbia pervaso, negli anni Novanta, un’intera generazione e quale sia la condizione personale vissuta dai cinesi da quel momento in poi, oltre alla comune consapevolezza della post-ideologia. I due temi principali delle opere di Chen Wenling sono le manifestazioni di un’umanità estremizzata e le immagini intangibili del consumismo. La sua auto-rappresentazione estrema inizia con la serie "Red Boy", in cui l’artista trasmette la sua esperienza in forma autobiografica, che non è riconducibile né al realismo né alla scultura d’avanguardia, poiché è auto-espressione dello stesso Chen Wenling in uno stato di vita critico in cui i leit motif sono gioia, paura, gioco e fantasia. Negli anni Novanta, la scultura tendenzialmente assorbe l’arte concettuale e l’arte d’avanguardia, dando vita ai due grandi filoni della scultura contemporanea, ossia il realismo e la scultura d’avanguardia. In pratica, però, è difficile attribuire le opere di Chen Wenling a uno dei due orientamenti. La serie "Red Boy" mostra una condizione personale singolare, trasferendo l’esperienza umanistica universale in una sorta di auto-allegoria senza formati complessi o temi narrativi, bensì semplicemente usando un colore distintivo e un movimento del corpo esasperato per rappresentare uno stato specifico dell’umanità. Sebbene la singolarità di tale forma di auto-rappresentazione non ricomprenda il concetto della scultura d’avanguardia e la realtà del realismo, ha un impatto visivo notevole che deriva proprio dalla criticità estrema dello stato. La serie "Red Boy" simboleggia la sintesi, nel metodo espressivo di Chen Wenling, tra forme scultoree allegoriche e manifestazioni di umanità estremizzate. Le sue sculture mostrano valori terreni estremi e fisicamente generalizzati nell’esistenza dell’essere umano come eccessi di felicità, isolamento, difficoltà e così via, un’espressione di gioia e dolore vista non in una prospettiva realistica, bensì come manifestazione ultima e ideale, sottolineando la condizione personale assoluta raggiunta in un determinato momento. Poiché tale estremizzazione è giocoforza soggettiva, Chen Wenling ha, di fatto, innalzato tale stato a una visione personale con un colore ricorrente standard per raffigurare compiutamente la sua condizione personale e ridurre al minimo gli elementi della concezione e della narrazione, ricorrendo all’anima per una confessione più diretta. La serie "Red Boy" esprime nel contempo l’individuo e l’umanità condivisa; il linguaggio della sua scultura esprime principalmente il suo personale stato fisico, che è tema personale, condizione dell’io e manifestazione di sé. La serie "Happy Life" costituisce un’importante trasformazione nello sviluppo dell’artista che passa dall’auto-espressione alla manifestazione della società e delle masse, attraverso un cambiamento che circoscrive l’esistenza di un gruppo nella società consumistica. Il linguaggio della scultura non è più forma ingenua e auto-imitativa, ma assorbe elementi dello stile popolare, narrazione e stile ironico. In "Happy Life", Chen Wenling sceglie, per due immagini, un tenero maialino grassottello e un uomo spensierato per illustrare una quotidianità fittizia. Ad esempio, una coppia colta in un intimo abbraccio, un gruppo di maiali che fanno la verticale come se fossero acrobati, una donna o un uomo che tiene un maiale paffutello attorniato da un gruppo di maialini, una coppia a cavalcioni di un maiale con l’uomo che, brandendo un coltello, crede di essere veramente in guerra in groppa al suo cavallo; un tipo eccezionalmente forte che afferra la testa gigantesca di un maiale e combatte con essa a mezz’aria o un giovane cacciatore a cavalcioni di un maiale mentre scruta l’orizzonte attraverso un vecchio cannocchiale sono tutte opere di Chen Wenling di grande rilievo. Persone e maiali nelle sculture dell’artista si trovano tutti in una condizione personale estrema, colti in un eccesso di felicità o una follia smaccatamente barocca. Nelle sue opere, i maiali, non solo per quel che riguarda i gesti, ma anche la condizione personale in cui sono rappresentati, sono fortemente umanizzati. Le persone, invece, pur mantenendo forme e gesti umani, si trovano in una condizione e a un livello mentale realmente assimilabili a quelli di un maiale. In questa serie, esseri umani e maiali sono molto simili gli uni agli altri sia negli atteggiamenti che nel mondo interiore. I maiali sono vicini agli esseri umani e viceversa, il che stabilisce un rapporto parabolico tra i due e l’allegoria che gli esseri umani siano come i maiali, dando vita a uno stile simbolizzato di espressione della forma visiva. Tenerezza e felicità assoluta sono i caratteri principali di questa serie, oltre a rappresentare un tratto distintivo e un orientamento in termini di valori nello spirito contemporaneo degli anni Novanta, quando la Cina è diventata consumista. Sebbene "Happy Life" abbia continuato a esprimere uno stato personale estremo come "Red Boy", ha superato la condizione personale e l’umanità generale per approdare alla manifestazione dello stato personale socializzato e della natura umana dell’epoca. In questa serie, l’interpretazione di "Happy Life" si manifesta in realtà come ottimismo estremo, ma totalmente indolore. Ogni maiale e ogni essere umano paiono vivere in uno stato gioioso, che non ha passato o futuro, nel tentativo di rendere la quotidianità leggera e priva di sofferenza. Quanto alla forma, la serie "Happy Life" acquisisce maggiore significato e apparentemente maggiore profondità di "Red Boy", propendendo per una critica sociale sul tema, visto che si sofferma sullo studio di un gruppo: essere umano e maiale insieme. Ad esempio, i maiali indossano abiti come gli uomini, e le loro azioni li ricordano, ma coi maiali sono presenti corpi umani con tutta la loro fisicità e materialità, il che già rivela un vivere sociale profondo, oltre il quale l’artista critica l’ideologia del consumismo al pari del provincialismo e del feticismo della personalità. Da metà degli anni Novanta, le sculture contemporanee si concentrano principalmente sui protagonisti del consumismo. Si pensi, ad esempio, alle opere di Xu Yihui su McDonald’s, sui cibi precotti e su altri beni di consumo, alla mostra di Liu Liguo e Liu Jianhua sull’appetito del corpo e la fioritura, alla rappresentazione di Li Zhanyang di campi da gioco e luoghi frequentati dagli arrivisti, ecc. La società consumistica, dalla sua idea della cultura all’esperienza interiore del crollo, è stata considerata oggetto critico del tema dell’ironia. Tale rivelazione, tuttavia, si limita essenzialmente a un livello dell’esistenza dell’io e dell’ideologia sociale. Per quanto concerne la rivelazione della dissimulazione dell’uomo e dell’atrofizzazione della personalità, in “Happy Life” l’artista è più profondo, sondando realmente l’essenza degli stati spirituali di un gruppo in quel momento storico. “Happy Life” non esprime solo l’essenza personale di un gruppo dell’epoca, ma, nel linguaggio della scultura, chiama anche in causa vari formati e pratiche, sia a livello concettuale che formale, tra cui allegoria, scultura narrativa, ironia visiva, immagini e gruppo e narrazione contestualizzata. Diplomatosi all’Accademia di arte e design, in termini di linguaggio artistico, Chen Wenling insiste sulla riforma della scultura accademica attingendo dal popolare, soprattutto ispirandosi alle posture popolari e, in tal senso, fa proprie le caratteristiche comiche delle figure del volgo: donne grasse, espressione inebetite, labbra increspate, che venivano rappresentate in uno stato gioioso e ottimistico nelle precedenti sculture e immagini dei festival popolari di primavera, stato gioioso sfruttato anche per mostrare spensieratezza e assenza di dolore, in una sorta di idealizzazione, soprattutto dell’arte folk, del popolino, che però, in Chen Wenling, diventa ironica espressione degli stati emotivi di un gruppo. In termini di linguaggio artistico, le opere recenti di Chen Wenling sono più vicine a una struttura linguistica leggendaria surrealistica. Gli uomini, ad esempio, cavalcano maiali come se cavalcassero elefanti o mammiferi preistorici e paiono combattere contro di loro come gli eroi lottavano contro i dinosauri. L’ultima serie stempera l’immediatezza della metafora sociale, ma tende a rivelare l’esistenza insensata dell’io. L’esperienza della forma è sempre parte cruciale della pratica scultorea di Chen Wenling, per cui le sue ultime opere somigliano maggiormente a una sperimentazione di un linguaggio artistico, lontane dalla socialità della scultura e dalla critica diretta della post-ideologidi “Happy Life”, riportando apparentemente Chen Wenling alla raffigurazione del regno umano dell’auto-indulgenza, e il cerchio si chiude. Rispetto all’umanità universale e all’estremizzazione di “Red Boy”, questa volta ciò che Chen Wenling vuole rappresentare non è l’idealizzazione o l’immaginazione che guida l’umanità verso la perfezione, bensì il pessimismo e l’insensatezza, tentando dunque di inserire un elemento forte dell’io in maniera che l’impressione visiva sia di immobilità nel mezzo di una lotta. Le sculture di Chen Wenling rappresentano l’essere umano in uno stato di estremo entusiasmo straordinaria umanità, forma da lui inizialmente scelta come linguaggio per l’auto-rappresentazione nella scultura e tema successivamente trasposto nel contesto del sociale, dove si è trasformato in satira a quanti, come animali, si sono lasciati edonisticamente coinvolgere dal fascino del consumismo. Tuttavia, l’ironia e la critica sembrano non essere l’unica tecnica di Chen Wenling, che si spinge anche a rappresentare un’immagine della lotta personale e del riscatto dal pessimismo.
Testo a cura di Zhu Qi
CREAM / Italia
Cristina Treppo
“Sleep out” (2008) si compone di una decina di “letti” in ferro verniciati di bianco, simili nella struttura, ma quasi tutti diversi uno dall’altro. Nella loro serialità e in alcuni altri tratti caratteristici, intendono evocare le camerate di luoghi istituzionali come caserme e ospedali, in particolare ospedali psichiatrici.
Italia
Oliviero Rainaldi
IL CORPO, ASTRAZIONE ABITABILE
Un ideale luogo del silenzio. Uno spazio vuoto dove una scultura, solennemente solitaria ma non sola, occupa la necessaria porzione d’aria. Occhi attenti ne leggono l’apparenza e il bagaglio segreto che sembra trattenere sottopelle.
Essere lì significa circumnavigarne la forma levigata, decodificando l’iconografia fondativa dell’immaginario di Oliviero Rainaldi. Dentro quella stanza echeggia l’eco dei nostri passi e il respiro arcaico della scultura in bronzo. La dimensione corporea dell’opera diventa un rigoroso archetipo che contiene l’astrazione abitale di ogni identità femminile. Una silhouette totemica, compressa nel vorticismo invisibile che dissolve il dettaglio ed esalta la morbida rappresentazione della bellezza riproduttiva. La scultura catalizza le energie contestuali tramite la sua attitudine etica, la nettezza della linea assoluta, l’imperfezione vibrante che rende la superficie umanamente reale. Ci guarda e trafigge attraverso la pura attitudine interrogativa, coinvolgendo i nostri sensi in un viaggio dove memoria e futuro parlano la medesima lingua. L’opera di Rainaldi racchiude l’essenza e il suo opposto con un’immagine plastica che diviene immaginario. Racconta di universi complessi che si dissolvono davanti alla sua essenzialità fantasmatica. Descrive la (sua e nostra) coscienza che accompagna il turbamento, l’estasi, la normalità, il dubbio, il ripensamento. Sotto la pelle sembra trattenere il rumore colorato del mondo, lo stridio ostinato della vita, le zone d’ombra e gli spunti luminosi di giornate comuni. Quel verde marino la fa somigliare ad un moloch degli abissi che risucchia il dolore, la sofferenza ma anche la dignità e il pathos che solo la bellezza assoluta rende un segno impassibile e mai sopito. L’artista è così da sempre, fedele ad una figurazione ascetica in cui le linee sacralizzano gli archetipi. Che siano disegni su carta, pitture su tavola o tela, piccole o grandi sculture non cambia l’approccio: tutto nasce da una veggenza preziosa, da un’assonanza tra l’occhio e lo spirito delle forme. La natura dello sguardo imprime alla prosa aspra del corpo una dimensione lieve e universale. Movimenti essenziali del segno elaborano entità fuori dal tempo, fuori dallo spazio concreto, lontanissime dagli abiti sociali che mascherano l’archetipo. Eppure quelle presenze ci somigliano, sono fogli assorbenti che si completano con le parole del nostro vocabolario intimo. I loro gesti appaiono netti e impressivi, quasi a ricordarci da dove veniamo e di quale materia siamo fatti. Posizioni fetali, erette o rigidamente orizzontali, figure rannicchiate o accovacciate, corpi inginocchiati o seduti: a contare è la postura che dichiara stato d’animo e condizione profonda, dando alle figure (e quindi a noi stessi) il tono sentimentale di una forte esperienza interiore. Una fisicità asciutta eppure espressiva, monastica eppure crudele. Una guerra silenziosa del corpo. Dentro il corpo. Oltre il corpo. Siamo ancora lì, a circumnavigare un’apparizione concreta. La scultura respira con un battito che è solo dell’opera dal cuore sano. E mentre ascoltiamo il suo rumore bianco ecco che l’acqua inizia a scivolare lungo la pelle bronzea. Una pellicola trasparente avvolge il corpo, quasi a difenderlo dalle derive feroci del presente. Acqua che purifica, fertilizza, disseta. Acqua che pulisce sopra e sotto la superficie, diventando l’antidoto per proteggersi dal troppo dolore dell’umanità.
Testo a cura di Gianluca Marziani