:: Accademia di Belle Arti di Venezia
Giacomo Roccon
Il versante forse più originale della produzione di Giacomo Roccon consiste in installazioni che associano sculture a fotografie. “Untitled IV” (2005) è la scultura quasi al naturale di un bambino giapponese, un po’ stilizzata al modo dei fumetti, che protende vivamente una mano in avanti. Nel gruppo di foto associate a quest’opera, la figuretta riappare ambientata in un contesto domestico, la mano protesa verso la katana posata sopra un mobile. Le immagini suscitano allarme: che farà il bambino quando raggiungerà la letale, affilatissima spada? Ma la scultura col suo gesto immobile, cristallizzato, fissa l’azione in qualcosa di tipico, di eterno: il bambino giapponese può non cercare la spada? Ha per caso stampata in sé l’innata vocazione a emulare gli antichi guerrieri, a entrare nella leggenda dei samurai? In “Untitled II” (2004) il gioco si ripete: la scultura rappresenta un ragazzino imbronciato e triste, in camicia. Le foto lo raffigurano in bagno: un bagno istituzionale, pulito, moderno, con una fila di lavandini da una parte e le porte dei gabinetti dall’altra. Niente di anormale, tutto in ordine, ma l’associazione tra la figura e il luogo crea una misteriosa suspense carica di disagio. Con “Fallen Angel”, Roccon crea una scultura espressamente ideata per la volta a carpenteria metallica destinata a ospitarla al Lido di Venezia. Non ci sono fotografie questa volta. La figura umana, in grandezza naturale, pende lugubremente sospesa a catene, ricordando i cadaveri che venivano lasciati esposti dopo le esecuzioni dei secoli passati. La naturale immobilità della statua, i capelli lievemente oscillanti alla brezza marina assecondano l’illusione, rafforzando l’effetto evocativo di questa dolente, macabra elegia.
Curatrice: Gloria Vallese
Testo a cura di Gloria Vallese
Ringraziamenti: Accademia di Belle Arti di Venezia, Alice Brunello
: Francia
Arman
Arman è oggi il maestro consacrato del linguaggio dell'appropriazione quantitativa. Dico sempre che la sua opera è il "discorso del metodo" (discours de la méthode) del Nouveau Réalisme. Fra il 1959 e il 1964 Arman ha concepito e verificato le sintassi maggiori del suo linguaggio quantitativo (Accumulations, Coupes, Colères, Combustions). È ormai da più di trentacinque anni che la sua produzione vive al ritmo accelerato di questa trama operativa. Il potere creativo di Arman è senza limite, dal mini-gioiello al maxi-monumento. L'universo degli oggetti è infinito. Oggetto dopo oggetto, tematica dopo tematica, la mente di Arman, in permanente agguato, sta esplorando il mondo: il suo mondo, quello dell'industria. Su questo secolo, che ha raggiunto ormai la fine, Arman lascia la sua impronta personale ed unica, quella del grande ingegnere ispirato dal riciclaggio poetico della produzione industriale. La sua intelligenza dell'oggetto è affascinante, allucinante, genialmente estrosa.
Curatore: Pierre Restany
Testo a cura di Pierre Restany
Con il supporto e per gentile concessione di: Galleria Vecchiato
Con il patrocinio dell'Ambasciata di Francia in Italia - Servizio Culturale
:: Accademia di Belle Arti di Venezia
Jaša & Meta
Del tutto semplice, anzi, come dicono gli anglosassoni, “piece of cake”: una scultura per il Lido d’estate non può che essere una fetta di torta gigante, dagli strati invitanti, sormontata da soffice panna e canditi colorati. Un’illusione gigante, perfino abitabile, come la casetta di dolci e marzapane che appare ad Hansel e Gretel in mezzo alla foresta. Una visione intonata all’estate, stagione la cui felicità vera o immaginata è siglata da iconografie dissetanti di gelati e sorbetti, bibite colorate e decorate con la frutta, dilatate dalla pubblicità a dimensioni enormi. “Cocktail problem” è firmata J&M, sigla che sta per Jaša e Meta. Jaša (Jaša Mrevlje) è un pittore che predilige il formato gigante per immagini surreali che combinano l’illustrazione infantile con il luna park in mondi di favola dove il sogno e l’incubo spesso, misteriosamente, si toccano. Meta (Meta Grgurevič) traduce gli stessi temi in un’interessante scultura in materiali vari, intensamente fantastica. Per entrambi, un sogno a tre dimensioni per l’estate è l’esaltazione scherzosa di questa fiaba visiva stagionale intorno ai cibi e ai colori, che torna rituale e inevitabile ad ogni svolta di stagione come le zanzare e gli zatteroni, in un’opera scultorea permeata di humour e di ritrovata festosità neo Pop.
Curatrice: Gloria Vallese
Testo a cura di Gloria Vallese
Per gentile concessione di: Galerija Ganes Pratt - Ljubljana
Ringraziamenti: Franci Zavrl, Aleš Jenčič, Accademia di Belle Arti di Venezia
: Italia
Bobo Ivancich de la Torriente
Scrivere dell'arte di Bobo Ivancich de la Torriente di questo artista aristocratico, eretico per metodo e marginale per scelta, non è certo impegno di ufficio quotidiano. Lo ho conosciuto negli anni settanta e da allora dopo avergli fatto amare Gino De Dominicis, ha sentito la necessità di cimentarsi in questa lunga avventura artistica che lo ha portato negli anni a misurarsi con progetti di grande respiro e tutti connotati dal suo spirito irriverente. Jongleur abilissimo di ogni paradosso e contraddizione, Bobo Ivancich è un artista per certi versi scomodo. Voglio dire che al centro delle sue opere e riflessioni stanno l'uomo e le sue contraddizioni raccontate con i mezzi espressivi della pittura e della scultura. Ivancich si serve a questo proposito di una pittura scabra ed essenziale che non concede molto alle estenuazioni formali ma ricerca anzi gli accenti secchi e taglienti di una comunicazione che mira dritto al cuore ed alla mente senza possibilità di equivoci. L'artista controlla tale operazione con gesti espressivi efficaci che tendono a far divenire le superfici della tela un luogo di accadimenti emotivi bloccati, destinati a durare per sempre.
Spirito giocoso, leggerezza e ironia esplosiva invece per l'enorme tee da golf in vetroresina realizzata per questa edizione di OPEN. Con l'iscrizione rovesciata "GOD DOES NOT PLAY DICE WITH THE UNIVERSE BUT HE DOES PLAY GOLF" - Bobo fa il verso all'antenato Renè Magritte, ma qui l'intervento della parola dialoga con l'oggetto stesso per affermarne la sua collocazione all'interno della sfera concettuale. Così la parola è indifferentemente linguaggio silenzioso, evocazione, dislocatrice di sensazioni ed elemento di disturbo. L'oggetto ingigantito a monolite, diventa dunque nel mutuo gioco del capovolgimento, elemento atto a isolare il momento di tensione del medium all’interno dell’atto comunicativo. Il "non sense" è tutto disposto sulla materia ricreata: la partita tutta giocata e ferma all'ultimo tiro, per sempre senza finale.
Curatore: Paolo De Grandis
Testo a cura di Paolo De Grandis
Presentato da MEDIART
Con il supporto di MEDIARTCOMMUNICATIONS
Per gentile concessione di: CARMELA CIPRIANI COLLECTION NEW YORK
: Messico
Gabriela Malvido Oest
Assenza di Dio
"Dio non ha poli nè preferenze: è energia pura"
Testo Buddista agnostico, secolo VI
Maria Zambrano, la grande filosofa spagnola, si chiede perchè l’essere umano abbia tanti problemi ad affrontare il divino. La nostra epoca, così repentina e veloce, ci porta ad adottare pratiche spirituali carenti di un compromesso con Dio o gli dei. Uno ha due possibilità di fronte al divino: venerare la sua presenza o negarla. Però eludiamo il principio fondamentale e vero della religione: una spiegazione etica sull’origine del bene e del male, sul perchè della luce e dell’oscurità e sul ritmo del progetto cosmico. Lo stesso succede con la fotografia, come dice l’artista e pensatore buddista Stephen Batchelor: “Ogni azione fotografica è un disegno fatto con luce”. Dobbiamo considerare inoltre che da un lato si trova l’inquadratura dell'artista e ciò che egli crede di vedere, mentre dall’altro lato ciò che lo spettatore intende di quella immagine. Scriviamo questi sillogismi perché al momento di osservare immagini di luoghi sacri certi concetti ci sfuggono con facilità. Quindi sorge la domanda: come affrontare le fotografie di Angkor dell’artista Gabriela Malvido? Dei due grandi complessi di templi antichi che esistono nel conflittivo sud-est asiatico, uno si trova a Bagan, Burma e l’altro ad Angkor, Cambogia. I templi di Angkor, costruiti dalla civiltà jerémer tra l’802 ed il 1220 dell’era moderna, rappresentano uno dei successi architettonici a lunga conservazione dell’umanità. Da Angkor i re jerémeri governarono un vasto dominio che si estendeva dal Vietnam ed una parte della Cina fino alla Baia del Bengala. Angkor Dak, la “città che è un tempio” fu concepita come uno specchio della costellazione del Drago. L’esuberanza della foresta, le leggende sulla città perduta e riscattata dai monaci buddisti nomadi, la numerologia che racchiude la cosmologia brahmanica, il ponte tra Cina ed India, il lago che serve da specchio e la strana fame degli alberi che divorano i templi sono solo alcune delle situazioni che generano l’alone di mistero su Angkor Thom che neanche Giulio Verne o Joseph Conrad avrebbero potuto sognare. Gabriela Malvido non scelse di fotografare la terribile realtà della Cambogia durante il suo viaggio nella città sacra, né di fotografare a sua figlia montando sull’elefante; né tanto meno scelse le inquadrature tipo "national geographic" quando arrivò ad Angkor Thom, la città tempio. Invece osservò come alcuni alberi si erano impossessati del Tah Prom, un tempio all’interno del complesso architettonico. La sua opera è una "sineddoche" di ciò che succede tra la natura e le opere umane. Gabriela scoprì che le radici multiformi abbracciano le strutture come se fossero il braccio giusto di un Dio assente che vorrebbe dare una lezione all’orgoglio degli uomini. Ricordiamo che sono trascorsi 145 anni nel tentativo di riscattare Angkor dalla ferocia naturale e dal saccheggio umano. Gli alberi, incuranti delle opere dell’uomo, sono cresciuti con un processo naturale nel trascorso dei secoli finché la loro presenza sopra il tempio impose una lezione ai monaci erranti. Costoro decisero che il cammino verso il Nirvana fosse un viaggio senza proposito e che la natura dovesse esercitare le sue leggi affinché fosse possibile l’armonia. In un mondo in cui stiamo cercando di riscattare tutto, ci sembra incomprensibile l’azione dell’albero sopra il tempio; per il mondo antico il progetto cosmico aveva altri meccanismi di metodo. Infine, ricordiamo le sagge parole del gran re jerémer Yayavaram VII, quando parlò delle sue intenzioni di edificare i templi: “Pieno di profonda simpatia per il bene del mondo, per concedere agli uomini l’ambrosia delle medicine per conquistare l’immortalità...Per la virtù di queste buone opere, vorrei poter riscattare tutti coloro che stanno lottando nell’oceano dell’esistenza...”.
Curatore: Vincenzo Sanfo
Testo di Carlos Aranda Màrquez
Con il patrocinio dell'Ambasciata del Messico in Italia