Cina
Huang Zhiyang
PIO PIO: LA BELVA DI BUON AUSPICIO
Né propriamente un animale, né una creatura dotata di potere spirituale, è un organismo in mutazione, un miscuglio di desiderio spirituale, bestialità ed esoterismo.
Si potrebbe definirla una specie prodotta in un ambiente parassita da incroci molteplici, ma anche considerarla una sorta di sostanza ignota ancora in fase di evoluzione.
Huang Zhiyang
Gran Bretagna
Marc Quinn
Il percorso estremamente articolato di Marc Quinn dimostra una certa preoccupazione per la mutevolezza del corpo e per i dualismi che definiscono la vita umana: spirituale e fisico, superficiale e profondo, cerebrale e sessuale, paradossi che Quinn sviluppa in opere concettuali sperimentali dalla forma essenzialmente figurativa avvalendosi di una serie molto eterogenea di materiali quali ghiaccio, sangue, vetro, marmo o piombo. Le sue sculture, i suoi dipinti e i suoi disegni spesso affrontano il tema del rapporto distaccato che viviamo con il nostro corpo, sottolineando come il conflitto tra il “naturale” e il “culturale” abbia una certa presa sulla psiche contemporanea. Nel 1999 Quinn ha intrapreso una serie di sculture di marmo che riproducono vari tipi di amputazione come forma di rilettura delle aspirazioni della statuarietà greca e romana e delle sue rappresentazioni di un’integrità idealizzata. Una di queste opere raffigura Alison Lapper, una donna nata senza braccia, in stato di gravidanza avanzata, opera poi successivamente ampliata trasformandola in un capolavoro dell’arte pubblica per il quarto plinto di Trafalgar Square. Tra gli altri temi principali del suo lavoro vanno citati la modificazione genetica e l’ibridismo, come in “Garden” (2000), installazione che porta il visitatore a passeggiare tra fiori incredibilmente belli destinati a non appassire mai, o nelle sculture “Eternal Spring”, che raffigurano fiori conservati in un perfetto stato di fioritura immersi in silicone sotto zero. Quinn ha inoltre esplorato i potenziali usi artistici del DNA realizzando un ritratto in cui il protagonista è costituito da filamenti di DNA estratti e conservati in provetta. “DNA Garden” (2001) contiene invece il DNA di oltre 75 specie vegetali e 2 umani in una riedizione cellulare del giardino dell’Eden. Il lavoro indubbiamente diverso e poetico di Quinn medita dunque sui nostri tentativi di capire o superare la transitorietà della vita umana attraverso la conoscenza scientifica e l’espressione artistica.
Marc Quinn ha esposto in occasione di molte personali e collettive di rilevanza internazionale quali Sonsbeek ’93, Arnhem (1993), Give and Take, Victoria and Albert Museum, Londra (2001), Statements 7, 50a Biennale di Venezia (2003) e Biennale Gwangju (2004). Tra le personali, ricordiamo Tate Gallery, Londra (1995), Kunstverein Hannover (1999), Fondazione Prada, Milano (2000), Tate Liverpool (2002), Irish Museum of Modern Art, Dublino (2004), Groninger Museum, Groningen (2006) e MACRO, Roma (2006).
CREAM / Romania
Martin-Emilian Balint
"Anti-lulling field", l’ipnotico campo di papaveri di Martin-Emilian Balint, è composto da 1440 fiori più grandi del vero (plastica verniciata in rosso e fil di ferro), alti 130 cm. I papaveri al centro del campo sorgono su una piattaforma connessa a 4 sensori di movimento. All’avvicinarsi di qualcuno, i sensori scattano e la piattaforma comincia a muoversi, facendo "stormire" i papaveri.
CREAM / Italia
Dania Zanotto
Per questo intervento a San Servolo, l’artista ha immaginato un gruppo di cinque tende, un intero piccolo villaggio collocato sotto gli alberi. Sono tende "sciamaniche", con riferimento al senso di un’intensa comunione con la natura, e anche a un "abitare fuori", abitare lontano, in una dimensione sospesa tra l’esilio e il viaggio.
Leggere, mosse dal vento, sono costruite con garza e materiali che suggeriscono oggetti naturali, come ghiaccio e corteccia. All’interno, ciotole, cuscini e tappeti sono posati su un fondo di sabbia antracite; fondo inizialmente circolare, ma che il vento rimuove con l’andare dei giorni, modificandone lentamente la forma. Appese agli alberi del "boschetto sciamanico" si trovano delle vesti, evocazione degli abiti consunti che i tungusi abbandonano appesi agli alberi della foresta, disertate dagli spiriti; evocazione di un’epoca, forse mitica, in cui l’uomo comprendeva il linguaggio degli uccelli e i segni della natura. Questo villaggio diafano di case senza radici, quieto e silenzioso, animato solo dal vento, evoca presenze umane al momento assenti e si pone idealmente in dialogo con gli antichi degenti dell’isola, gli "ospiti" folli relegati qui, lontano dalla comunità; ospiti la cui percezione era alterata, e perciò costretti all’ isolamento, come gli sciamani. Anche nell’antica tradizione europea, come in quelle del resto del mondo, i folli e i semplici erano considerati in qualche modo profeti, vivevano isolati, vagando senza meta quando non venivano invece costretti in un luogo. Una condizione per molti versi simile a quella degli sciamani che, al momento di annunciare la profezia o la formula di guarigione, si portano ad una crisi isterica seguita da allucinazioni, e sono temuti e tenuti lontano dalla comunità per comportamenti che nemmeno loro sono in grado di controllare. Un raffinato uso dei materiali (quelli che appaiono come ghiaccio e corteccia sono in realtà speciali resine, fissate a una base di garza che rende diafano e incorporeo questo villaggio fantasma, animato solo dal soffio dell’aria), insieme all’idea di una casa che non c’è, che non è che la materializzazione di un pensiero, possono suggerire un accostamento fra queste creazioni di Dania Zanotto e alcuni aspetti del lavoro dello scultore asiatico Do Ho Suh, che emigrato negli USA evocava fino ai più minuti dettagli della sua abitazione rimasta in Corea con esili strutture gonfiabili in plastica trasparente, appese al soffitto, fluttuanti e senza radici come lui stesso. In realtà, se l’idea finale può apparire accostabile, i punti di partenza sono assai diversi, perchè da tempo l’innesco per la riflessione di Dania Zanotto nell’ambito della scultura e dell’installazione è costituito da veste e tenda delle antiche civiltà nomadiche. Una veste, quella del nomade, ricoperta di simboli, che custodisce fra le sue pieghe ornamenti, amuleti, oggetti della vita quotidiana, che si dilata nel senso e nella funzione fino a divenire una sorta di abitazione viaggiante, i cui contorni coincidono coi confini del corpo. La sua tenda, al contrario, è abitazione provvisoria, ridotta al minimo, i cui arredi essenziali devono sopperire alle più diverse necessità del vivere.
Testo a cura di Gloria Vallese
Germania
Paul Elsner
Personalità complessa quella dell’artista tedesco Paul Elsner, ricca di sfaccettature, fluttuante nell’imaginifico, seppur saldamente ancorata ad un solido mondo concreto, affondando le sue radici nel mito, nella storia, nella tradizione, rispettandone i valori anche quando si lancia in avventure proiettate verso il futuro tecnologico.
Paul Elsner è anzitutto uno studioso approdato alla tecnologia attraverso severi studi tecnico-scientifici. Il mondo in cui fa muovere i suoi progetti è quello attuale, spinto verso spazi sempre più ampi. Elsner avanza sul terreno dell’arte quale attento e sensibile osservatore degli accadimenti della sua Città, di cui conosce ogni piega. Ama procedere in un’indagine geografica, storica, politica di Dresda, non avulsa dal passato più recente da cui l’artista sembra voler prendere le dovute distanze, forse perché non tutte le ferite sono rimarginate. Le installazioni di Elsner sottolineano il loro carattere tecnologico ed evidenziano la funzionalità dei materiali impiegati, per lo più vetro o vetro acrilico, utilizzando in qualche caso addirittura le facciate di vetro dei palazzi su cui giocare con la luce. E qui l’elemento luce si trasforma da strumento di illuminazione a esaltatore del dettaglio, creatore di suggestioni, mutando la percezione dello spazio e del rapporto tra gli oggetti ivi contenuti. Le fantasiose installazioni di luce di Elsner decorano la città con innovativi effetti scenografici. Luce e specchio sono i due elementi fondanti nella creazione dell’opera "Paradise-Paralyze", con cui Paul Elsner rappresenta la Germania a OPEN XI. Un grande specchio circolare, convesso, di m 1,50 di diametro, è appeso al di sopra della gradinata d’accesso all’Hotel Des Bains al Lido di Venezia, e riflette un’immagine lievemente distorta di coloro che vi si appressano e dell’ambiente circostante. Al calar del giorno, si percepisce, dietro allo specchio, l’astrazione di un occhio luminoso, nella cui pupilla si evolve un movimento rotatorio continuo, come per le lancette di un orologio o di un radar. La luce ha valore di verità: è la luce a disvelarci il mondo. Si presentano simbolicamente nell’opera dell’artista tedesco le facce di un’emblematica medaglia, forgiata all’urgere di problemi e di cambiamenti sociali repentini. Occhio e specchio si integrano quale metafora dei valori essenziali che nella nostra epoca, caratterizzata dal culto mediatico, sembrano venir meno. L’occhio ci è stato tramandato quale simbolo di Dio onnisciente. Ma questo motivo può purtroppo richiamarsi anche all’occhio che spia in un regime totalitario, che esclude ogni casualità, ogni imprevisto, controllando il tutto. Il desiderio esasperato di chiarezza ha portato per converso, all’epoca della Rivoluzione francese, all’Illuminismo. Nei regimi totalitari più recenti, al controllo operato dalle varie Polizie segrete, ogni informazione riportata poteva essere non solo pericolosa, ma diventare un’arma pietrificante, come allo sguardo paralizzate di Medusa, la Gorgone dotata di un potere magico di efficacia devastante. Lo sguardo uccide. Lo sguardo ammalia, fulmina, seduce, poiché è uno strumento dell’anima. Elsner fa suo il motivo dell’occhio paralizzante dei racconti mitici del mondo celtico e dell’antica Grecia e, come Jean Paris, che ha tentato di fondare una critica delle arti visive sullo sguardo e sul modo in cui esso “s’impone, si muta, si nega”, sottolinea la corrispondenza biunivoca fra lo sguardo che osserva e l’oggetto osservato. Lo sguardo è simbolo e strumento di una rivelazione e la Medusa - riprendendo il pensiero di Paul Virilio ne “La macchina della visione“, Parigi, 1988, - rappresenta una sorta di circuito integrato del vedere, che sembra annunciare un futuro terribile alla comunicazione. Dal 2005 ad oggi il percorso artistico di Elsner è segnato da una serie di importanti progetti, tappe di un excursus che dal divieto alla comunicazione con la messa al bando dell’”Arte degenerata”, portano ad un recupero dei valori essenziali. Fra quelli più recenti, ricordiamo “Der lichte Wald” (Il bosco rado), installazione creata nel 2007 per la Galleria d’Arte del Delikatessenhaus di Lipsia: su strisce di vetro verticali, oscillanti alla brezza, è proiettata l’immagine, manipolata al computer, di un bosco di betulle. Frammenti reali e virtuali, implicanti un processo visivo-spaziale, vanno stratificandosi alla riflessione e deviazione dei fasci di luce. L’esito artistico sottende un operoso cammino di ricerca della verità. Elsner si muove nell’amato e ad un tempo temuto bosco nordico, luogo di smarrimento, come nella favola di Grimm, ma anche rifugio sicuro. Un senso nostalgico lo riporta alla "Waldeinsamkeit" romantica; il bosco allora si fa oasi di quiete, lontana dall’ansia che attanaglia il "Global village". Ma il bosco di betulle rimanda inevitabilmente a "Birkenau" e un’ombra cupa si allarga evocando un oscuro passato recente. L’arte di Elsner ha dunque un valore evocativo ed educativo anche per le generazioni a venire. Da questo lavoro emerge un impegno storico-politico dell’artista, estraneo a qualsiasi ideologia, che apre la strada alla discussione, già dimostrato nel 2006 con la video-installazione "Ströme" (Correnti) per l’Anniversario del bombardamento di Dresda del 13 febbraio 1945. Associandosi all’iniziativa civica "Bürger.Courage" contro il reflusso dell’estrema destra, si è richiamata l’attenzione sulle conseguenze deleterie del pensiero e dell’azione neonazista. Nel progetto, patrocinato dal Presidente del Bundestag, Wolfgang Thierse, l’Elba diventa il luogo della memoria. Dall’Augustusbrücke, nell’oscurità, vengono proiettati sulle sue acque testi di scrittori e poeti ispirati alla tragica distruzione di Dresda, tra cui Durs Grünbein, Volker Braun e Christian Lehnert. Le parole affiorano in superficie, assumono forma e leggibilità e scompaiono inghiottite dalla corrente. L’Elba diviene culla e ultimo approdo della cultura, della tradizione, dell’arte di un popolo che ha fondato le sue sedi lungo le sue rive. Elsner come Virilio teme i futuri sviluppi comunicativi in un mondo globale; per questo ha voluto dare alla sua arte voce collettiva e ad un tempo "monocorde" con la creazione del Gruppo Lumopol, con cui opera in campo artistico con sempre rinnovato successo.
Testo a cura di Nevia Pizzul-Capello