Extraordinary success for our exhibitions in the Biennale Architettura 2014
Fundamentally Hong Kong? DELTA FOUR 1984-2044
Happiness Forecourt = Largo da Felicidade = 開心前地
The Space that Remains: Yao Jui-Chung’s “Ruins” Series
With an average of 120.000 visitors in six months.
Tratto da: http://www.labiennale.org
Il Presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, accompagnato dal Curatore della 56. Esposizione Internazionale d’Arte Okwui Enwezor, ha incontrato oggi a Ca’ Giustinian i rappresentanti di 53 Paesi partecipanti alla 56. Esposizione, che si svolgerà dal 9 maggio al 22 novembre 2015 ai Giardini e all’Arsenale (vernice 6, 7 e 8 maggio) nonché in vari luoghi di Venezia.
Il tema scelto da Okwui Enwezor per la 56. Esposizione Internazionale d’Arte è: All the World’s Futures
Okwui Enwezor ha così esposto il suo progetto:
«Le fratture che oggi ci circondano e che abbondano in ogni angolo del panorama mondiale, rievocano le macerie evanescenti di precedenti catastrofi accumulatesi ai piedi dell’angelo della storia nell’Angelus Novus. Come fare per afferrare appieno l’inquietudine del nostro tempo, renderla comprensibile, esaminarla e articolarla? I cambiamenti radicali verificatisi nel corso degli ultimi due secoli hanno prodotto nuovi e affascinanti spunti per artisti, scrittori, cineasti, performer, compositori e musicisti. Ed è riconoscendo tale condizione che la 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia propone All the World’s Futures, un progetto dedicato a una nuova valutazione della relazione tra l'arte e gli artisti nell’attuale stato delle cose».
La Mostra: il parlamento delle forme
«Al posto di un unico tema onnicomprensivo, All the World’s Futures è permeato da uno strato di Filtri sovrapposti, intesi come una costellazione di parametri che circoscrivono le molteplici idee che verranno trattate per immaginare e realizzare una diversità di pratiche. La 56. Esposizione utilizzerà come Filtro la traiettoria storica che la Biennale stessa ha percorso durante i suoi 120 anni di vita, un Filtro attraverso il quale riflettere sull’attuale “stato delle cose” e sull’ “apparenza delle cose”».
«In che modo artisti, filosofi, scrittori, compositori, coreografi, cantanti e musicisti, attraverso immagini, oggetti, parole, movimenti, azioni, testi e suoni, possono raccogliere dei pubblici nell’atto di ascoltare, reagire, farsi coinvolgere e parlare allo scopo di dare un senso agli sconvolgimenti di quest’epoca? Quali materiali simbolici o estetici, quali atti politici o sociali verranno prodotti in questo spazio dialettico di riferimenti per dare forma a un’esposizione che rifiuta di essere confinata nei limiti dei convenzionali modelli espositivi? In All the World’s Futures, lo stesso curatore insieme agli artisti, agli attivisti, al pubblico e ai partecipanti di ogni genere saranno i protagonisti centrali nell’aperta orchestrazione di questo progetto».
«Al centro della Mostra c’è la nozione di esposizione come palcoscenico nella quale verranno esplorati progetti storici e antistorici. All’interno di questa struttura gli aspetti della 56. Esposizione privilegeranno nuove proposte e lavori specificatamente concepiti dagli artisti, cineasti, coreografi, performer, compositori e scrittori invitati per lavorare individualmente o in collaborazione».
Tre i Filtri che strutturano All the World’s Futures:
Vitalità: sulla durata epica; Il giardino del disordine; Il Capitale: una lettura dal vivo.
Vitalità: sulla durata epica
« All the World’s Futures è una manifestazione, sia temporale sia spaziale che è incessantemente incompleta, strutturata da una logica dello svolgimento, un programma di eventi che può essere esperito nel punto d’incontro tra “vitalità” ed “esibizione”. Sarà una drammatizzazione dello spazio espositivo come un evento dal vivo in continuo svolgimento. Così facendo All the World’s Futuresproporrà delle opere che esistono già, ma chiederà anche dei contributi che saranno realizzati appositamente ed esclusivamente per questa Mostra».
Il giardino del disordine
«Questo Filtro, collocato nei Giardini e nel Padiglione Centrale nonché nelle Corderie, nel Giardino delle Vergini dell’Arsenale e in altri spazi selezionati a Venezia, utilizza lo spazio storico dei Giardini della Biennale come una metafora attraverso la quale esplorare l’attuale “stato delle cose”. La Biennale Arte 2015 ritorna sull’antico territorio di questo ideale per esplorare i cambiamenti nell’ambiente globale, per leggere i Giardini, con il suo malridotto insieme di padiglioni, come il sito ultimo di un mondo disordinato, di conflitti nazionali e di deformazioni territoriali e geopolitiche. Gli artisti sono stati invitati ad elaborare delle proposte che avranno come punto di partenza il concetto di giardino, realizzando nuove sculture, film, performance e installazioni per All the World’s Futures».
Il Capitale: una lettura dal vivo
«Oltre al caos e al disordine propri dell’attuale “stato delle cose”, esiste una preoccupazione dilagante che è al centro della nostra epoca e modernità. Fin dalla pubblicazione dell’imponente opera di Marx Il Capitale: Critica dell’economia politica nel 1867, la struttura e la natura del capitale ha suscitato l’interesse di filosofi e artisti, ispirando teorici della politica, economisti e strutture ideologiche in tutto il mondo. Una parte centrale di questo programma di letture dal vivo è “Das Kapital”, un imponente progetto bibliografico frutto di una meticolosa ricerca, concepito dal direttore artistico nel Padiglione Central».
«Con questa prospettiva, All the World’s Futures, attraverso le sue costellazioni di Filtri, scaverà a fondo nello “stato delle cose” e metterà in discussione l’”apparenza delle cose” passando da un’enunciazione gutturale della voce alle manifestazioni visive e fisiche, tra opere d’arte e pubblico».
«La prima Mostra Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia riformata ebbe luogo nel 1999, e fu in quell'anno, all'inizio di una nuova fase della propria vita, che dovette reagire a molte osservazioni critiche: una mostra organizzata per padiglioni sembrava una formula obsoleta o comunque invecchiata nell'epoca della conclamata globalizzazione».
Così il Presidente Paolo Baratta ha introdotto la 56. Esposizione Internazionale d’Arte rammentando di aver accettato la critica ma non le conclusioni che taluni proponevano: «non rinnegammo cioè la Biennale per padiglioni – chiarisce il Presidente - ma aggiungemmo a essa in via definitiva una nostra grande Mostra Internazionale autonoma. Predisponemmo nuovi grandi spazi e nominammo un curatore per questo progetto ambizioso. Una grande Mostra Internazionale, e non più sezioni internazionali aggiunte volta a volta alla mostra del curatore del Padiglione Italiano. Un curatore internazionale per la nostra Mostra Internazionale e mai più comitati o commissioni. Il modello funzionò, e in questa nuova vitale formula duale il numero dei paesi che chiesero di partecipare aumentò. Sono trascorsi 15 anni da quella riforma e dall'avvio di questa nuova storia. Ed è grazie a quella scelta strategica che oggi un curatore comeOkwui Enwezor (come i suoi più recenti predecessori) può proporci, non una "sezione", ma un progetto di Mostra Internazionale ispirata dall'ambizione di offrire al mondo una cassa di risonanza del mondo».
«In quell'occasione – spiega Baratta - ai Giardini fu affiancato l'Arsenale e oggi, dopo 15 anni, il numero di paesi partecipanti nelle due sedi si eguaglia: 28 partecipazioni nazionali ai Giardini e altrettante all’Arsenale, in occasione della 14. Mostra Internazionale di Architettura. Questa più precisa responsabilità assunta dalla Biennale ha fatto evolvere il dialogo con i padiglioni e i paesi partecipanti.Il pluralismo di voci che ne risulta è un unicum della Biennale di Venezia».
«La Biennale– precisa Baratta - è una Mostra d'Arte, non una mostra mercato. Non basta un neutrale aggiornamento dell'elenco degli artisti più o meno giovani e noti. L'arte e la presente realtà ci sfidano a compiti più complessi. Abbiamo, in passato, definito in vari modi la Biennale. Oggi, di fronte ai pericoli di scivolamenti conformistici verso il noto, il consueto e il sicuro, l'abbiamo denominata la "Macchina del desiderio". Mantenere alto il desiderio di arte. A sua volta, desiderare l'arte è riconoscerne la necessità. È, cioè, riconoscere come necessità primaria e primordiale l'impulso dell'uomo a dare forma sensibile alle utopie, alle ossessioni, alle ansie, ai desideri, al mondo ultra sensibile».
«Una Biennale è cosa complessa – dichiara il Presidente. Qualunque sia il punto di partenza del curatore - filosofico, politico, antropologico - la sua selezione dovrà davvero presentarci creazioni necessarie e vitali alla nostra percezione. E l'introduzione di ‘Biennale College’ aumenta il nostro impegno verso le nuove generazioni di artisti. L'edizione in corso di Architettura ha avuto al suo interno presenze aggiunte dei settori Danza Teatro Musica e Cinema, la prossima Biennale d'Arte conterrà al suo interno varie forme dell'arte, ma come parti integrante della Mostra».
«Non è la prima volta – conclude Baratta - che una mostra ha davanti a sé un mondo fatto di insicurezze e turbolenze mentre il "giardino del mondo" ci appare un giardino non ordinato,ma non è neppure la prima volta che a una realtà complessa una mostra reagisca con entusiasmo ed energia vitale come fa questa che ci accingiamo a realizzare».
La 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia presenterà, come di consueto, le Partecipazioni nazionali, con proprie mostre nei Padiglioni ai Giardini e all’Arsenale, oltre che nel centro storico di Venezia.
Anche per questa edizione si prevedono selezionati Eventi collaterali proposti da enti e istituzioni internazionali, che allestiranno le loro mostre e le loro iniziative a Venezia in concomitanza con la 56. Esposizione.
Sito web ufficiale della 56. Esposizione: www.labiennale.org
By Chika Okeke-Agulu Princeton University Professor/ Blogger, Ofodunka
Excerpt from: http://www.huffingtonpost.com
On Wednesday, December 4, the Press Office of the Venice Biennale announced the appointment of the Nigerian-born curator and scholar Okwui Enwezor as the director of the 56th Venice Biennale scheduled for 2015. In this interview, Enwezor discusses his career and the significance of his latest curatorial project.
Chika Okeke-Agulu: At the opening of Documenta11 in 2002, I remember saying to you that the next big challenge would be Venice. I said it as a kind of joke, but not because I did not think you could do it. Rather I was aware that only one other person--the legendaryHarald Szeemann--had curated both Documenta and Venice. In any case, since Documenta you have organized Gwangju and Seville Biennales, as well as La Triennale, Paris, and now, Venice. I cannot imagine what it feels to join Szeemann in this curatorial pantheon?
Okwui Enwezor: Thanks Chika. That's extremely kind of you to make a comparison with me and Szeeman. I know this question will inevitably come up, and I want to be as clear as possible, I belong to no pantheon. There really isn't a comparison; Szeeman is entirely in a league by himself. In the abundance of his ideas, the almost carnal fervor for artists, artworks, and objects of all kinds, along with his bold, original curatorial experiments, he paved the path to the thinking that curatorial practice need not be too studied, formalist or dogmatic.
The fact that we are the only two curators to have helmed both Documenta and Venice Biennale is a historical happenstance; but one whose significance is still settling in. It is of course, a great honor to be entrusted with the task of organizing an exhibition of this magnitude and international acclaim. Nevertheless, it is not lost on me that there is some kind of meaning in the symbolism to which you drew attention. Exactly 15 years ago, I got handed the reins of organizing Documenta. I was 35 at the time, I had limited track record, no major institution, patron, mentor, behind me, yet somehow that amazing jury that selected me saw beyond those deficits and focused, I hope, on the force of my ideas, and perhaps even a little wager on the symbolism of my being the first non-European, etc. My sense of it was that the jury wanted a choice that could be disruptive of the old paradigm but still not abandon the almost mythic ideal of this Mount Olympus of exhibitions.
I came to Documenta as I said with little track record, but with an abundance of confidence. Now at fifty, I come to Venice with a different set of lenses and experience. As you mentioned I have now organized quite a number of biennials. It's time to get to work.
C. O.: Documenta11 was one of the few exhibitions that have been called game changers in the history of curating. And this, I believe had to do with your introduction of the multiple platforms scattered across the globe, as the constitutive sites of an event that until then only took place in Kassel. What are your preliminary thoughts about how you might approach Venice, given its history and structure?
O. E.: It's too early to say what shape the 56th Venice Biennale will take. Of course, I have some preliminary ideas, but those will be worked out in due course. The one virtue of Documenta is the time allowed to organize it, which made possible the platforms. But you must remember that the platform idea, which was fundamentally about the deterritorialization of Documenta, was not initially endorsed by certain landlocked critics, but once it took off its implications about going beyond business as usual became abundantly clear. I drew enormously from the Igbo saying: "Ada akwu ofuebe ekili nmanwu." The mobility of the platforms across major cities and some not so major ones was premised on this principle. To see the artworld properly as it should be, to engage in meaningful debate the curator must risk the sense of inquisitive wanderlust. However, Venice is an Island, but also a legendary maritime trading city that historically looked out to the rest of the world. The limited time permitted to organize the biennale produces a certain sense of temporal density. I am certainly thinking about how to surmount this conundrum.
C. O.: Looking at the trajectory of your career, from the early 1990s when, with a few friends and colleagues working in the margins of the contemporary art world, you founded Nka: Journal of Contemporary African Art, to becoming a leading academic, administrator and curator in the field of contemporary art, does it sometimes feel like an improbable story?
O. E.:All stories are improbable. Nothing is preordained. No one is born with a straight arrow in his quiver. It's a combination of relentless work and good fortune. Without this improbability there is no risk, no adventure, no discovery. I am an autodidact which was the basis of my ceaseless and restless appetite for ideas. I learned enormously about art, not in an art history seminar (I don't even recall actually taking one) but by seeing enormous number of exhibitions, being in the presence of art and artists every week, everywhere. I still do, and I maintain the exercise of seeing, reading, thinking, and writing.
I arrived in New York in late summer of 1982, at a pivotal point in the development of contemporary art, fashion, performance, music, etc. in the city. I was a beneficiary of the perfect storm of creative upheaval: art, postmodern and postcolonial theory, identity politics: race, sexuality, gender, queer and feminist activism, and the AIDS pandemic further refreshed my perspective on difference and politicized my response to injustice. This was the context that opened me up to complexity and taught me to be courageous and fearless.
Also, Coming from Nigeria I felt I owed no one an explanation for my existence, nor did I harbor any sign of paralyzing inferiority complex. What was apparent was that most Americans I knew and met were actually not worldly at all, but utter provincials in a very affluent but unjust society. And when this became clear I saw no reason why I could not have an opinion or a point of view. I was not about to be respectful of ignorance of Africa or prejudice against African culture. This gave me some chutzpah.
I started learning about what was going on in downtown New York across every cultural and literary sphere through publications like Village Voice, Detail, Seven Days. I attended openings, went to readings, saw an enormous number of exhibitions, in every imaginable context, from apartments to Soho galleries, to alternative spaces to museums, nightclubs such as Danceteria, Area, Pyramid Club, Peppermint Lounge, Palladium, Save the Robots, The World, Roxy, Madam Rosa's, and later Nell's, Mars, you just name it. I was educated as it were in situ. I can actually say that I was there.
At some point this intense experience as a young Nigerian who was deeply interested in art and all types of the creative process ceases to be a fluke. I don't believe in standing on the margins. You should also know that what partly made Nka viable was that I did actually have a deep knowledge of international contemporary art. I was not pretending. When I started thinking of setting up Nka in 1991 when I was in my twenties, I was intellectually ready and had a certain theoretical grounding and immersion in art, visual culture, etc. I was already collecting a bit of photography and some art. My first major acquisition was the portrait of Jean-Michel Basquiat by James Van der Zee from Howard Greenberg Galleryon Wooster Street. I would go to the Comme des Garçon boutique downstairs to shop and up to the Greenberg Gallery to browse vintage prints by Cartier Bresson, Kertescz, Weston, Moholy Nagy, Baron de Meyer. So with Nka It wasn't as if I did not know what I was talking about. The only reason it also worked was because I had the language and it was fresh and people were open to giving it audience. That it led to where I am standing today is both surprising and thrilling. But we are nearly thirty years into this story. The novelty of endless looking back is wearing off. Obama's campaign slogan in the last election against the hapless Mitt Romney had it exactly right: Forward.
C. O.: Are you going to retire from curating biennales after Venice?
O. E.: I am not the retiring type.
PREMIO OPEN
14a edizione
Premio Speciale Collaterale alla
71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
Vince il Premio OPEN 2014
Rä di Martino
Cerimonia di premiazione: Martedì 2 settembre 2014
Villa Degli Autori, Venezia Lido
PDG Arte Communications istituisce la quattordicesima edizione del Premio OPEN, in occasione di OPEN 17. Esposizione Internazionale di Sculture ed Installazioni.
L’istituzione di questo riconoscimento, ideato nel 2000 da Paolo De Grandis e Pierre Restany, nasce parallelamente ad OPEN, Esposizione Internazionale di Sculture ed Installazioni che il 28 agosto 2014 ha inaugurato la sua diciassettesima edizione. L'evento prevede la premiazione di un regista presente alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che con la sua opera riveli, in maniera inedita, un fertile interesse verso la seducente tematica della mutua interazione tra arte e cinema, due forme artistiche che vivono d’immagine e si nutrono del desiderio di tradurre emozioni.
Il Premio OPEN 2014, un'opera ideata e realizzata dall’artista Mark Aspinall, è stato assegnato alla regista Rä di Martino.
La giuria, presieduta da Paolo De Grandis, ha così motivato la scelta:
«Alle opere di Rä di Martino, video artista che gioca sapientemente con i linguaggi dell’arte. Il suo sguardo ironico e surreale cattura storie bizzarre per raccontare la fragilità umana tra teatro, musica, letteratura e cinema. Articola con giudizio codici e citazioni, si muove con maestria tra le tecniche e gli strumenti delle arti.
Il cinema in particolare è per Rä di Martino protagonista/oggetto di indagine e riflessione. E così nelle sue opere si colgono, si scorgono, a volte si intuiscono, altre volte si inciampa quasi, in storie, luoghi, parole, echi di quel cinema che è diventata memoria collettiva e come tale ritorna ad essere alfabeto: segni codificati che raccontano nuove storie o nuove vecchie storie nella dimensione del video d’artista».
Nel corso delle passate edizioni il Premio è stato conferito ai registi Joao Botelho con il film Quem es tu?, Julie Taymor con Frida, Takeshi Kitano con Zatoichi, Marziyeh Meshkini con Sag - haye velgard, Stanley Kwan con Changhen ge (Everlasting Regret), Jia Zhangke con Dong, Peter Greenaway con Nightwatching, Philip Haascon The Butcher’s Shop, Michael Moorecon Capitalism: A Love Story, John Woo, il Direttore Marco Müller, Robert Redford e nell’ultima edizione a Serena Nono.
La mostra OPEN è realizzata da diciassette anni in concomitanza con la Mostra del Cinema di Venezia, a conferma del preciso intento di rafforzare il legame esistente tra arte e cinema, e l’istituzione del Premio OPEN testimonia questo fecondo e stretto rapporto.